Mentre continua la misteriosa disattenzione dei media sulla sindacalizzazione delle Forze armate, si registra invece un certo interesse da parte dei giornalisti per i suicidi tra i militari. Sono ben 26 dall’inizio dell’anno i lavoratori con le stellette che si sono tolti la vita. L’argomento va certamente affrontato con doverosa cautela – il suicidio è un fenomeno complesso – ma è indubbio che possa esserci una relazione tra la qualità del lavoro ed eventi tragici di questo tipo. In particolare, è plausibile che in un ambiente, come quello militare, fortemente gerarchizzato e caratterizzato da una compressione spesso eccessiva dei diritti civili e sociali, possano verificarsi più facilmente che altrove situazioni di disagio psicologico lavorativo. Ed è evidente che la disponibilità di un’arma acuisce questo pericolo.

Andrebbe rispolverato un successo editoriale di qualche anno fa, Il metodo antistronzi di Robert I. Sutton (Elliot, 2007). A prescindere dal titolo colorito, il saggio di Sutton, professore di Scienza dell’Ingegneria gestionale presso l’Università di Stanford, fornisce un’analisi rigorosa dei rischi, in termini di problemi psicologici e di scarso rendimento, collegati alle prevaricazioni sul luogo di lavoro e offre una interessante chiave di lettura delle dinamiche interne alle Forze armate. Ebbene, nel mondo militare, la regola della ferrea disciplina può senza dubbio favorire abusi e prepotenze, mentre il culto della carriera e la competizione sfrenata possono trasformare i colleghi, come suggerisce lo studioso americano, “in bastardi spietati che non guardano in faccia nessuno pur di salire qualche gradino nella gerarchia e buttare giù il rivale”.

La Corte costituzionale, cancellando nel 2018 il divieto di sindacalizzazione, ha così evidenziato un grave ritardo nella democratizzazione delle Forze armate. Se è vero che le organizzazioni militari hanno conosciuto comunque un fisiologico adeguamento ai tempi, è ragionevole pensare che regole troppo rigide e persino incostituzionali siano dannose per il benessere psicofisico del personale. Si pensi alla anacronistica normativa dei procedimenti disciplinari nei quali – come ha sottolineato più volte Massimiliano Zetti, segretario generale del NSC (Nuovo Sindacato Carabinieri) – giudice e accusatore sono la stessa persona. O al diritto penale militare di pace, che è rimasto sostanzialmente identico dal 1941.

Riguardo ai suicidi, se non si può pretendere di definire un programma per evitare con certezza questi gesti autolesivi, bisogna però fare tutto il possibile per creare un ambiente di lavoro civile, che tuteli pienamente la dignità della persona. Occorre perciò diffondere il valore del rispetto reciproco e favorire il dialogo e l’interazione: ritenendo che debba esserci un netto distacco tra chi ordina e chi esegue, si rischia di mettere muro contro muro e di incorrere in frequenti turbamenti e frustrazioni. Certo, i nascenti sindacati militari potranno dare un contributo significativo in un processo del genere, promuovendo magari una riforma costituzionalmente orientata della disciplina militare e affrontando seriamente il problema non marginale del trattamento economico. A tutti i militari va assicurata una retribuzione adeguata: è inconcepibile, per esempio, che un appuntato separato debba essere costretto, a cinquant’anni, a vivere in una stanzetta della caserma.

La questione dei suicidi deve far accendere i riflettori sulle condizioni di lavoro nel mondo militare, i cui caratteri sono da sempre poco noti al resto della società. Al tema sarà dedicato un importante convegno organizzato il prossimo 15 novembre a Padova dalla Cgil. Ci sarà – mi dicono – anche il segretario generale Maurizio Landini. Qualcosa si muove, per fortuna.

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