La gestione dell’immagine è una strategia di guerra da sempre. Ogni narrazione, compresa dunque quella fatta per immagini (fotografiche o filmiche), è sempre stata funzionale agli esiti dei conflitti. Le immagini in movimento cominciarono ad avere un ruolo durante la Prima guerra mondiale, ovvero in concomitanza con la nascita e i primi vagiti della settima arte, la quale viene impiegata accanto alla fotografia – per poi fondersi con essa – proprio da parte dell’esercito.
Tuttavia la Prima guerra mondiale, da conflitto piuttosto statico qual era, non poteva “regalare” grandi emozioni e soprattutto grandi azioni. Eppure allora emergeva un elemento che tornerà prepotentemente. Se infatti inizialmente il soldato veniva rappresentato all’opera accanto alle armi, lentamente la presenza delle armi fagocitò l’inquadratura, occupando la scena. Ciò che si voleva mostrare, già allora, era lo splendore della macchina, l’efficienza dello strumentario bellico.
Come scrive Sarah Pesenti Campagnoni in Il cinema va in guerra. Lo spettacolo dell’attualità al servizio della propaganda bellica (contenuto nel libro curato da Alessandro Faccioli e Alberto Scandola A fuoco l’obiettivo! Il cinema e la fotografia raccontano la Grande Guerra): “Questo eccesso tecnologico aumenta l’impressione di ‘non-umanità’ della guerra moderna ed è accentuato anche dal moltiplicarsi di elementi che accrescono la lontananza di chi osserva (spettatore compreso) dall’evento rappresentato: cannocchiali, binocoli, mirini, fessure aperte tra i ripari delle trincee, obiettivi ecc.”.
La guerra, già all’inizio del secolo scorso, assume per certi versi i connotati di un momento demandato all’attività delle macchine. Questa è una caratteristica che senz’altro tornerà nei conflitti successivi, fino ai giorni nostri e alle guerre condotte con droni, visori, bombe intelligenti. Proprio questa esaltazione dell’aspetto marziale del progresso si cela dietro le immagini diffuse in questi giorni dell’uccisione di Al-Baghdadi. Sono cambiati gli strumenti, sono cambiate moltissimo le guerre stesse, ma questo aspetto – l’uso propagandistico delle immagini – è una costante.
E se nel frattempo l’intero universo della rappresentazione per immagini è cambiato, poiché si è progressivamente andati verso una “democratizzazione” delle riprese, tanto da arrivare a trasformare ogni possessore di un telefonino in un potenziale reporter, ciò che non è cambiato è l’ossessione del controllo sulle immagini belliche da parte degli eserciti e dei combattenti. In questo, la prima Guerra del Golfo è paradigmatica. Anche lì abbiamo assistito all’esaltazione della (finta) precisione chirurgica degli ordigni, assieme alla censura sulla rappresentazione della morte e della sofferenza, concepite come esternalità, collateral damages.
E se il mondo nel frattempo veniva raccontato più o meno liberamente in ogni sua sfaccettatura, la guerra esigeva invece che i giornalisti venissero “selezionati”, fossero autorizzati dagli stati maggiori a raccontarla da una certa angolatura (il giornalismo embedded). Si è perfino arrivati al caso di una celebre giornalista nonché moglie di un consigliere dell’amministrazione statunitense, Christiane Amanpour, che si presentò al confine con l’ex Jugoslavia assieme alla procuratrice del Tribunale per l’ex Jugoslavia Louise Arbour per documentare la messinscena dei serbi che non volevano farla entrare sul territorio del paese. Amanpour in seguito poté, grazie alle sue amicizie, dare in anteprima la notizia dell’incriminazione di Slobodan Milosevic.
Dunque fin qui niente di troppo nuovo sotto il sole. Ciò che però mi pare di notare, dalla morte di Osama Bin Laden alla diffusione delle immagini declassificate dell’assalto al compound di Al-Baghdadi, è che si sia persa perfino l’ultima traccia di pudore, che un tempo faceva sì che gli eserciti usassero censura e propaganda per nascondere le atrocità commesse. E se nella Prima guerra mondiale si studiavano riprese con i vincitori che offrivano tozzi di pane ai prigionieri, qui si è arrivati – sempre dietro al filtro dell’asettico e chirurgico uso delle bombe – a diffondere liberamente immagini di violazioni del diritto internazionale.
Una volta, il targeted killing era relegato a operazioni clandestine e sotto copertura. Adesso le modificazioni della guerra hanno portato verso una legittimazione delle uccisioni mirate extragiudiziali che si giustifica alla luce dell’idea di “guerra preventiva” al terrore (colpisco prima di venire colpito) ma che più semplicemente ha talvolta il sapore della vendetta.