Appollaiati sopra i tetti insicuri dell’ex cartiera, un gruppo di uomini osserva le manovre portuali d’imbarco. La fabbrica è un enorme parallelepipedo di cemento, ferro e vetri in frantumi, esempio di archeologia industriale in disfacimento, ed è piazzata proprio davanti al terminal dei traghetti che da Patrasso, terza città della Grecia, raggiungono i porti italiani di Bari, Brindisi, Ancona e Venezia.
Saranno una dozzina, tutti piegati sulle ginocchia, vestiti di scuro per non farsi notare e si apprestano a portare notizie al resto dei connazionali, un centinaio di profughi irregolari nascosti tra gli impianti della fabbrica in disuso; bisogna fare in fretta, ogni occasione va presa al volo. Lo sa bene Milad, 21 anni, originario della provincia di Kabul, la capitale dell’Afghanistan, etnia tagika. Lo sa lui come tutti gli altri connazionali che da settimane sopravvivono dentro lo scheletro dell’ex cartiera dismessa dalla fine degli anni ‘80, vivendo in condizioni disumane.
Il ricambio di disperati è continuo, tra gente che riesce a partire, chi invece viene arrestato e deportato ad Atene e chi dalla capitale greca arriva ad alimentare la pattuglia. Senza saperlo, Milad e gli altri stanno partecipando ad un drammatico Gioco dell’Oca: tentare la fortuna saltando sotto ad un tir, arrivare alla meta vincitori o tornare, sconfitti, fino alla casella 1 e poi ricominciare. Di sacrifici questi giovani coraggiosi e senza nulla da perdere ne hanno già fatti parecchi, sopravvivere per qualche altro giorno in mezzo ai rifiuti, tra il freddo, la pioggia e le incursioni della polizia greca, dura e poco incline all’umanità, non rappresenta un ostacolo per loro.
Accade tutto lì, davanti ai suoi occhi, ad appena cento metri, ma con due file di barriere quasi inespugnabili in mezzo. Milad in testa hanno un solo obiettivo: “Salire su uno di quei camion – è l’imperativo di Milad che non stacca il suo sguardo dalla confusione del porto – Non ho alternativa, in Grecia non si può restare, il governo non aiuta sulla richiesta d’asilo e qui si rischia solo di essere arrestati, riportati in un centro nei dintorni di Atene per poi ricominciare tutto daccapo. I soldi li ho finiti, devo arrivare in Italia il prima possibile e da lì passare in Germania dove mi aspettano degli amici. Loro, anni fa, sono passati attraverso la Macedonia, la Serbia e così via, al tempo si poteva, oggi non conviene più”.
Milad, istruito e perfettamente informato su come va il mondo, è il classico esempio di risorsa che rischia di andare sprecata. A Kabul si era diplomato e aveva iniziato l’università, poi le cose per lui si sono messe male a causa di un Paese eternamente in guerra, preda del terrorismo e delle violenze interetniche. In effetti la rotta balcanica dal 2017 in avanti ha subìto il cosiddetto ‘giro di vite’, grazie alla decisione di quasi tutti i Paesi, Ungheria, Serbia e Croazia su tutti, di costruire muri e reticolati per impedire il transito di esseri umani verso il centro e nord Europa.
Riuscire in quell’impresa equivale ad un ‘6’ al Superenalotto. Ecco che la rotta via mare da Patrasso verso l’Italia sembra, purtroppo, non passare mai di moda. Difficile, se non impossibile stabilire quanti siano riusciti a passare dalla Grecia all’Italia. Certi, al contrario, sono i numeri legati agli arresti effettuati da polizia e guardia costiera di Patrasso: dai circa 1.000 del 2016, con la rotta balcanica ai massimi storici, agli oltre 2.600 del 2017 fino a quasi 4mila l’anno scorso, con il trend del 2019 in costante crescita. A questi dati vanno aggiunti i circa 600 migranti scovati e rispediti in Grecia dalle nostre autorità nei porti prima menzionati negli ultimi due anni.
Una rotta nota e scelta già dall’inizio degli anni ’90, quando, dall’Afghanistan si fuggiva in massa, specie durante il periodo tra la fase post-sovietica e l’arrivo dei Talebani, nel 1994. Da allora quel flusso non si è più arrestato. Numeri alla mano, non siamo certo al periodo tra il 2015 e i primissimi mesi del 2017, quando in Grecia entrarono più di un milione di profughi da estremo oriente, Iran, Iraq, Siria, ma anche dal Corno d’Africa. I risultati prodotti dai 6 miliardi di euro ceduti da Bruxelles alla Turchia si sono subito visti, con un crollo degli arrivi nel 2017, 30mila, saliti a 33mila l’anno scorso.
Con il presidente turco Erdogan ai ferri corti con mezzo mondo, Europa compresa, le maglie dei controlli si stanno riallargando e solo nei primi nove mesi del 2019 in Grecia sono entrati oltre 40mila migranti (nel frattempo in Italia gli arrivi sono passati dai 180mila del 2016 ai 112mila del 2017, fino al crollo di 23mila l’anno scorso, superati anche dalla Spagna).
La differenza inizia a notarsi, ma a Patrasso i profughi potranno sempre contare sull’aiuto del sindaco, Konstantinos Peletidis: “Se fosse per me il diritto d’asilo lo darei a tutti quelli che fuggono da guerre e da violenze – racconta – di sicuro lo garantirei per quei poveri afghani nascosti come topi dentro le fabbriche dismesse. Prima o poi li butteremo giù quei ruderi, sperando poi di poter ospitare le persone in strutture più degne. Noi occidentali imperialisti portiamo le guerre e rubiamo le loro risorse, affamandoli, e quando questi poveretti scappano verso l’Europa noi li ributtiamo indietro. È assurdo, paradossale. Prima o poi le cose dovranno cambiare. Io e la mia giunta, intanto, li aiutiamo in ogni modo possibile, quei poveri afghani e tutti gli altri migranti e stranieri presenti in città”.
Peletidis, cardiologo 65enne, è forse l’unico comunista puro rimasto ad avere in mano la responsabilità di un’amministrazione. Membro e attivista del Partito Comunista greco (per le amministrative il partito ha corso con il nome di Raggruppamento Popolare), è stato eletto per il primo mandato nel 2014 e lo scorso 2 giugno ha trionfato di nuovo: al ballottaggio, contro il candidato di destra del partito Neo Demokratia – a sua volta trionfatore delle recenti parlamentari con il nuovo premier Kyriakos Mitsotakis – Peletidis ha superato il 70% dei consensi: “Mi hanno votato pure quelli di Syriza (il partito dell’ex premier Alexis Tsipras, sconfitto al voto nazionale del 7 luglio scorso, ndr) e pure a destra – ricorda fiero Peletidis, che parla un ottimo italiano – La gente ha fiducia in me e io la ricambierò. Il Comune di Patrasso è rimasto nelle mani del popolo e adesso andiamo vanti nel nome del proletariato. La sinistra in Italia non esiste più, già ai tempi di Berlinguer per me il vostro Partito Comunista era di posizioni troppo morbide”.
Proclami che sembrano tornare dal passato, dai Politburo sovietici e, appunto, dai congressi del Pci, eppure in nome del popolo Peletidis in questi primi cinque anni, oltre al rilancio della città, ha svolto un ruolo di argine alla deriva sociale nel cuore della durissima crisi economica. Il sindaco comunista ha aperto mense per i poveri, garantendo pasti a tutte le persone in difficoltà, reso possibile la colazione gratuita per tutti gli studenti, abbassato le tasse comunali e alzato quelle per i grandi proprietari, denunciato la corruzione galoppante, contestato le misure di Tsipras sugli aumenti dei pedaggi, evitato licenziamenti nelle fabbriche e impedito di dare spazi pubblici ai membri del gruppo ultradestra Alba Dorata.
Peletidis ha detto e fatto qualcosa di sinistra. Il difficile arriva adesso però. Ad Atene il vento è cambiato, non comanda più Alexis Tsipras, sicuramente spira più vicino rispetto alla destra di Mistotakis che già ha iniziato il repulisti. Ad esempio al comando dell’Autorità portuale di Patrasso dove, da meno di due settimane, è stato nominato Panagiotis Tsonis: “Sono stato messo a capo dell’Ap dal governo per rilanciare l’economia del porto, ma non immaginavo che il compito fosse così duro – ammette sconsolato Tsonis, ingegnere civile, bombardato di telefonate e di carte da firmare – Arrivo qui in ufficio alle 7 ed esco alle 21, quando va bene. Devo portare a termine la missione e devo studiare tanto, ma ce la faremo ne sono certo. Il porto di Patrasso ha grandi potenzialità non sfruttate, vede qui fuori gli spazi vuoti? I migranti stanno tornando in massa, come nel passato e il problema va risolto, intanto ho già organizzato un primo vertice con la polizia della città, quella portuale e la sicurezza. Mi pagano per bloccare i profughi che cercano di salire a bordo e sotto i tir, ma non mi dica che sono senza cuore. Io quasi ogni giorno vado nelle fabbriche dismesse qui davanti dove si nascondono, li incontro, parlo con loro, mi fanno una gran pena”.
I volontari di associazioni locali, internazionali e del Comune che portano cibo, vestiti e cure mediche ogni giorno, il capo dell’Authority di Patrasso lì non l’hanno mai visto. I problemi però sono altri: “Alle persone nascoste dentro le fabbriche e negli altri rifugi ogni giorno portiamo cibo, ma anche vestiti, coperte e ci occupiamo delle loro condizioni di salute – spiega una delle volontarie dell’organizzazione spagnola ‘No name kitchen’ durante la visita ai profughi per la consegna giornaliera – Quando non ci sono un medico o un infermiere disponibili, le cure mediche di base le applichiamo noi. Queste persone escono qui nell’atrio della fabbrica solo quando arriviamo noi, altrimenti stanno rintanati dentro quel mostro di cemento per paura della polizia. Capita spesso, qui o nell’altra fabbrica, che di loro non si veda l’ombra perché magari poco prima c’è stato un blitz. Sono impauriti, stanno male fisicamente e psicologicamente, invece di farli stare meglio si cerca di tutto per affondarli. Alcuni hanno denunciato di essere stati percossi dagli agenti. Tutto ciò è davvero inumano”.
Le patologie più lievi affrontate da questi disperati sono legate ai loro tentativi costanti di salire sul tir del riscatto. Per farlo devono superare due barriere, un muro di vetro e una recinzione, sperare di non essere visti e infilarsi sotto il trailer, in mezzo agli pneumatici. Ed è qui che arrivano i danni. Gulbuddin, 28 anni, ha la caviglia sinistra gonfia come un pallone: “Ieri sera (alla fine di ottobre, ndr) ho adocchiato un camion fermo, non c’era nessuno attorno, così ho scavalcato la prima inferriata e affrontato il muro di vetro alto diversi metri – racconta dolorante, disteso su una seggiola, la gamba sopra una cassetta della frutta – Quando ce l’avevo fatta ad arrivare in cima e mi stavo per lanciare ho sentito delle urla e un fischio: era la polizia portuale che stava arrivando di corsa. Mi sono girato di scatto per tornare indietro e, non so come, sono sceso mettendo male il piede. L’adrenalina mi ha fatto scavalcare l’altra inferriata e tornare al rifugio, ma il piede mi faceva male”.
Gulbuddin è stato trasportato all’ospedale cittadino dai volontari di ‘No name kitchen’ e il giorno dopo aveva la gamba ingessata a causa della caviglia rotta. Fuggire per lui, almeno per un po’, non sarà così agevole. Gli altri non se la passano meglio: distorsioni, traumi costali, sospette fratture e tagli di ogni genere dovuti alle inferriate, ai rovi durante le fughe, ferite aperte e con infezioni, casi di scabbia e quant’altro. Certo le pessime condizioni igieniche del sito che li ospita non aiutano di certo.
Gulbuddin stava per farcela, stava per attaccarsi sotto un tir, ma sarebbe stato il primo di una lunga serie di step. Superata questa fase, infatti, i migranti aspettano che il tir venga caricato nel traghetto e così affrontano il viaggio nel freddo del garage/stiva aperto e non avvolti dal tepore degli spazi comuni o delle cabine. Viaggio che può durare circa dieci ore per Brindisi e Bari, ventidue se la nave è diretta ad Ancona e quasi un giorno e mezzo per Venezia. Una volta sbarcati la speranza è di non essere rintracciati (in area Schengen, di cui Grecia e Italia fanno parte, i controlli di camion, merci e passeggeri avviene random nell’ordine del 25% del carico), poi una volta fuori dall’ambito portuale si possono sganciare.
Tante le tragedie accadute in questi ultimi anni proprio nei dintorni delle città portuali. Ragazzi sfiniti, disarcionati dal camion magari a causa del sobbalzo provocato da una buca, travolti e uccisi dalle gomme del mezzo e i resti senza nome abbandonati per mesi nelle morgue degli ospedali senza che nessuno li reclami, quanto meno per una degna sepoltura. Più complessa l’alternativa di provare a penetrare nei trailer del camion. Le certezze di farcela sono ridotte al minimo, mentre alte sono le chance di fare una finaccia. Come accaduto, ad esempio, al tir della morte, con 39 uomini, asiatici, in prevalenza cinesi, trovati morti nell’Essex, in Inghilterra.
Gli investigatori greci hanno estirpato alcune organizzazioni di trafficanti di esseri umani in grado di fare da tramite con alcuni camionisti disposti a correre il rischio. Ora, con il ritorno ai numeri del passato, il fenomeno potrebbe ripartire. A Patrasso non ci sono soltanto le centinaia di giovani in cerca di un passaggio per l’Italia via mare. La galassia dei migranti è molto più articolata. Gli afghani occupano due fabbriche davanti al ‘nuovo porto’, presto potrebbe toccare ad una terza, una ex falegnameria industriale enorme, molto usata come safe shelter tra il 2015 e il 2016. I nordafricani, al contrario, hanno scelto come base alcune barche confiscate e abbandonate al vecchio porto e un altro tugurio, l’ex sede dell’Autorità portuale al ‘porto vecchio’, l’ennesimo blocco di cemento, un edificio fantasma che sta cadendo a pezzi.
Gli irregolari vivono dentro alcuni uffici trasformati in rifugi. Qui incontriamo Youssef, algerino. Nella sua alcova ha posizionato un materasso, un mobile recuperato da una discarica e usato per appoggiare i pochi vestiti e l’angolo con lo specchio e gli effetti personali. Su una delle pareti, piena di scritte in arabo, una campeggia in bella evidenza, ‘Italia’: “Voglio arrivare lì, ma non appeso sotto ad un camion – puntualizza Youssef – io voglio arrivarci regolarmente, dopo avere ottenuto tutti i documenti. Non è facile certo, qui in Grecia ottenere i permessi di soggiorno è complicato, i tempi per le pratiche lunghissimi, per non parlare dei costi. Intanto cerco di tirare avanti con qualche lavoretto e per fortuna che ci sono Nikos e quelli del Movimento”.
Youssef ha ragione, se non ci fosse il ‘Movimento per la protezione dei diritti dei profughi e dei migranti’ sarebbe un problema per tutti. La sede del Kinissi (Movimento) si trova appena fuori dal caotico centro di Patrasso. È facile, dentro quello spazio a pian terreno, trovarci Nikos Papageorgiou, l’anima dell’associazione che non ha presidenti e consiglio di amministrazione, ma solo soci che ogni martedì partecipano alle assemblee per stabilire progetti e attività. Non c’è un capo insomma, eppure tutto gravita attorno a Papageorgiou, figura storica della sinistra di Patrasso e da cinque anni, dopo essere andato in pensione, il cardine di questo gruppo: “Fino al 2014 seguivo le battaglie del partito – racconta Nikos, schivo, burbero a tratti, ma uomo di cuore e di sostanza – poi c’è stato un episodio che mi ha spinto ad entrare nel Movimento. Sto parlando della cosiddetta ‘tentata strage dei campi di fragole’. Il 1° agosto di quell’anno tre proprietari terrieri aprirono il fuoco contro alcune centinaia di braccianti, in maggioranza bengalesi, che stavano protestando, ferendone alcuni in maniera gravissima. Tutto in risposta alla richiesta che fossero loro riconosciuti gli ultimi sei stipendi. L’episodio mi ha aperto gli occhi ancora di più e in quella gente ho visto le vittime di tutte le migrazioni. Così ho deciso di dedicarmi al Movimento”.
I membri più assidui del gruppo sono 25, un centinaio quelli che più o meno appoggiano e aiutano l’organizzazione che si occupa di fornire pasti caldi ai migranti che si nascondono prima di salire a bordo dei camion diretti anche ad Ancona, di trovare alloggi per famiglie o gruppi di richiedenti asilo o prigionieri politici. Il Movimento organizza corsi di lingua greca per stranieri, raccoglie abiti da distribuire, riesce a trovare dei lavori, fornisce un servizio legale per i profughi e soprattutto ha mille contatti in città per qualsiasi tipo di necessità. Nikos Papageorgiou è sempre in prima linea: “Tutti noi diamo una mano per quel possiamo – spiega una delle volontarie più assidue, Georgia Efthimiou – Nikos però è un’altra cosa. Lui è sempre lì nella sede o in giro per risolvere qualche problema. Il suo primo pensiero sono loro, i migranti, se non riesce ad essere utile in qualche modo, anche per una cosa sciocca lui si arrabbia, vorrebbe arrivare ovunque, ma non sempre è possibile”.
Come ogni sera è lui a chiudere bottega, la sede in via Vlachou, a due passi dalla movida di Patrasso, piena di giovani, di caffè alla moda e di palestre hi-tech. Dei migranti nessuna traccia, loro restano nascosti in attesa di saltare sul tir giusto, facendo attenzione a non finire nel mirino della polizia, come ogni notte a caccia di irregolari.