Come un paguro alla sua conchiglia. La Sclerosi Laterale Amiotrofica ha lasciato a Marco Gentili, 30 anni compiuti il mese scorso, il solo uso di un dito. Eppure chi conosce questo giovane uomo, dottore con lode in Relazioni internazionali, sa che è enormemente attaccato alla vita. Un attaccamento che non gli ha impedito di impegnarsi in politica con il Pd e nell’associazione Luca Coscioni e battersi. Come per la legge sul Biotestamento: “Una conquista di civiltà che dovrebbe essere divulgata in modo orizzontale tra i cittadini e non verticalmente, ci sono troppi interessi politici, economici e soprattutto etici. Vorrei sottolineare che non è un atto finale, ma far conoscere le proprie idee in un determinato momento della vita che può essere cambiato in qualsiasi altro momento dell’esistenza in cui la situazione è mutata. Far applicare la legge risulta difficile perché se anche lo Stato italiano risulta essere laico, siamo indietro di qualche secolo”. In attesa che la Consulta depositi le motivazioni della decisione sul fine vita, innescata dal processo a Marco Cappato per il caso di Dj Fabo, ilfattoquotidiano.it gli ha chiesto di raccontare alla politica e a noi perché è necessaria una buona legge.
Cosa racconterebbe ai politici della sua vita?
La vita di una persona disabile può essere capita solo in parte da chi non vive giorno per giorno i problemi che un disabile sopporta. La legge deve esser il più possibile fruibile da tutti, senza distinzione di idee politiche o finanziarie, secondo un’etica che possa risolvere i problemi di tutti, credenti e non credenti.
Lo Stato quanto è distante da lei e dagli altri malati?
Come ho già detto, lo Stato – che altro non siamo che noi cittadini – non conosce in pieno le esigenze di quelle persone che vivono in prima persona i problemi quotidiani delle disabilità. Venite qui una settimana e troverete la risposta!
In un intervento lei ha parlato della fatica di stare dietro le quinte di una associazione come l’associazione Luca Coscioni. Ce ne può parlare?
Sono più di dieci anni che seguo l’associazione Coscioni, ero ancora uno studente liceale, quando mi avvicinai comprendendo personalmente quale scopo voleva raggiungere. Mi sono speso per aiutare a divulgare nei migliori dei modi i suoi obiettivi. Non è facile per chi come me fa tutto dietro un computer, parla tramite una voce sintetizzata, ma la forza di intraprendenza mi ha aiutato e tuttora mi aiuta a non uscire di scena. È la forza dentro di me che fa in modo che possa divulgare le esigenze delle persone meno fortunate.
In un blog citando l’invocazione di Davide Trentini: “Basta dolore” lei scrive bisogna focalizzarsi sulla parola dolore. Ci aiuti.
Il dolore è una parola comune semplice, provare dolore è una situazione personale che può mutare da persona a persona, c’è chi dice che l’uomo è nato per soffrire, ma si può anche essere nati per non soffrire. Provare dolore è qualcosa di negativo, lo dice la parola stessa, se questo può essere sollevato perché non provarci e dare a tutti la possibilità di scegliere tra soffrire e non soffrire.
Quanto è difficile vivere e impegnarsi dietro una tastiera e un monitor?
Non è faticoso è di più, però ci si abitua.
Prima e dopo la decisione della Corte costituzionale l’ordine dei medici e l’associazione dei medici cattolici hanno subito innalzato la barriera dell’obiezione di coscienza. Cosa ne pensa?
L’obiezione di coscienza da parte dei medici per quanto concerne il suicidio assistito si può paragonare all’obiezione per l’aborto. Chi è deciso a fare l’uno o l’altro non si fermerà fino a quando non ha raggiunto il suo scopo, incappare in un obiettore è solo complicare la vita (già complicata) di coloro che fanno questa scelta. Un medico secondo me, per quanto abile nel suo lavoro, non riuscirà mai a capire quello che porta un individuo ad un certo comportamento, il medico deve curare e quando non può farlo deve rinunciare.
In Vaticano pensano che il suicidio assistito sia una via di “uscita di comodo”. Cosa vorrebbe dire al Papa per fargli cambiare idea?
Il suicidio assistito non è la via di uscita più comoda, sarebbe meglio un infarto, la morte dei giusti, ma già Santo Agostino e San Tommaso parlavano di libero arbitrio, libertà di scelta, di volontà, di sofferenza. Auguro al Santo Padre di non dover scegliere.
Chi la conosce la descrive come una persona enormemente attaccata alla vita. Come si pone rispetto alla sofferenza?
Chi mi conosce sa che io non voglio morire, sono attaccato alla vita come il paguro Bernardo alla sua conchiglia, ma vivere non è solo respirare, magari attaccato a un respiratore, mangiare magari con una sonda; vivere è un insieme di momenti, circostanze, amicizie, sorrisi, divertimenti, magari anche dispiaceri, quelli non mancano mai. Vivere è confrontarsi con gli altri, discutere, anche arrabbiarsi ma VIVERE.
In una intervista, sua madre ha detto che lei e suo fratello avete lasciato chiare disposizioni in proposito sulla vostra condizione di malati di Sla e che lei gli darà seguito. Ci vuole spiegare?
Mia madre in quella intervista ha voluto sottolineare la facoltà mia e di mio fratello di voler dare seguito alle nostre volontà, come lei ha detto non è una gita in Svizzera, ma dare seguito alle nostre decisioni. È molto più difficile fare quell’atto di amore che delegare una terza persona. Fare quel gesto è qualcosa da cui non si ritorna, non ci si può ripensare. È difficile e irreparabile.