Tutti hanno provato - a colpi di decreto - a bilanciare diritto alla salute e salvaguardia del lavoro in una fabbrica che secondo quanto accertato dai periti dei tribunali ha prodotto "malattia e morte" con le emissioni nocive e con impianti vecchi e non sicuri per gli operai. Gli esecutivi hanno provato di tutto: un garante, un amministratore straordinario, tre commissari, ma l’acciaieria più grande e velenosa d’Europa è ancora la cartina al tornasole di promesse non mantenute
Sette anni senza una soluzione. Sette anni inseguendo un modo per disinnescare la bomba sociale e ambientale dell’ormai ex Ilva di Taranto. Dal 2012 a oggi si sono susseguiti ben sei Governi: da Monti ai due governi Conte passando per Letta, Renzi e Gentiloni. Tutti hanno provato – a colpi di decreto – a bilanciare diritto alla salute e salvaguardia del lavoro in una fabbrica che secondo quanto accertato dai periti dei tribunali ha prodotto “malattia e morte” con le emissioni nocive e con impianti vecchi e non sicuri per gli operai. Gli esecutivi hanno provato di tutto: un garante, un amministratore straordinario, tre commissari, ma l’acciaieria più grande e velenosa d’Europa è ancora la cartina al tornasole di promesse non mantenute.
Il sequestro del 2012 – Tutto è iniziato il 26 luglio 2012, giorno in cui il gip Patrizia Todisco sequestra senza facoltà d’uso gli impianti dell’area a caldo e l’Italia scopre che a Taranto si muore di più a causa dei fumi e delle polveri che quotidianamente si diffondono dallo stabilimento verso la città e in particolarmente verso il quartiere Tamburi che dista solo pochi metri dalle montagne di minerale di ferro e carbone stoccate a cielo aperto. A Taranto, invece, gli abitanti lo sapevano da tempo: prima che i risultati delle maxi-perizie degli esperti mettessero tutto nero su bianco, gli operai erano consapevoli di dover scegliere tra la possibilità di ammalarsi e la certezza matematica di non avere uno stipendio alla fine del mese. In riva allo Ionio il nodo salute-lavoro era come un segreto noto a tutti, ma di cui nessuno parlava.
L’intervento di Monti e l’era Bondi – Quando nel 2012 il pool della Procura guidato da Franco Sebastio avvia il blocco degli impianti il governo di Mario Monti corre ai ripari: l’allora ministro dell’ambiente, Corrado Clini, ferma con il primo decreto l’azione dei magistrati varando un provvedimento che consente all’Ilva di produrre per 36 mesi in attesa di adeguare gli impianti alle prescrizioni della nuova Autorizzazione integrata ambientale. Per vigilare sul processo di ammodernamento il governo Monti nomina un “garante per l’Ilva”, ma dura solo qualche mese. Il governo guidato da Enrico Letta sceglie come commissario straordinario Enrico Bondi che fino al giorno prima della nomina era stato scelto dalla famiglia Riva, proprietaria della fabbrica, come amministratore delegato dell’Ilva.
La triade di Renzi – Ad agosto 2013 nel decreto legge per la Terra dei Fuochi, il governo concede all’Ilva l’autorizzazione a smaltire i rifiuti della produzione nelle discariche interne allo stabilimento. È un regalo che consente all’azienda ormai gestita dallo Stato di risparmiare milioni di euro. A Palazzo Chigi, intanto, arriva Matteo Renzi che silura Bondi e nomina tre commissari straordinari Piero Gnudi, Enrico Laghi e Corrado Carrubba. Non solo. Renzi con un ulteriore provvedimento allunga i tempi di adeguamento all’Aia: l’Ilva, quindi, può continuare a produrre e quindi a inquinare senza che la procura possa intervenire a difesa dei cittadini.
L’immunità penale e l’altoforno 2 – A giugno 2015, nell’Altoforno 2 della fabbrica muore ucciso da un getto di lava l’operaio 35enne Alessandro Morricella: la procura sequestra l’impianto perché privo dei dispositivi di sicurezza. Non c’entrano le emissioni, quanto le condizioni di sicurezza dei lavoratori, ma per scongiurare lo spettro del blocco della produzione il governo interviene ancora e dispone che gli impianti potranno essere utilizzati anche se non sono sicuri. È così ancora oggi, tanto che nella lettera di recesso ArcelorMittal lamenta i lavori non eseguiti negli ultimi 4 anni dai commissari straordinari. I sindacati, allora, restano clamorosamente in silenzio. Renzi, inoltre, concede l’immunità penale ai commissari, ai loro delegati e persino ai nuovi acquirenti.
La gara e la vendita – L’Ilva è ufficialmente in vendita. Le cordate interessate sono due: la prima guidata dalla multinazionale Arcelor Mittal con il gruppo Marcegaglia e Banca Intesa, la seconda tiene insieme il colosso Jindal con Cassa Depositi e Prestiti, Arvedi e Del Vecchio, patron di Luxottica. Le offerte vengono analizzate da un team di esperti nominati dai commissari straordinari: per i tecnici il piano di Jindal (che ora secondo alcuni giornali riappare come possibile acquirente, portato dallo stesso Renzi) è più vantaggioso, ma misteriosamente l’accordo di vendita viene concluso con Mittal.
Le promesse del M5s e il balletto sullo scudo – Il contratto resta “segreto” fino a quando dopo nuove elezioni, i 5stelle formano il nuovo governo con la Lega di Salvini. A Taranto nel giorno delle elezioni politiche il Movimento trionfa: elegge cinque parlamentari grazie alle promesse di “chiusura delle fonti inquinanti, bonifica e riconversione”, ma poi sono costretti a fare un passo indietro: il contratto firmato dal Pd con Mittal, dicono, è “il delitto perfetto” e non può essere modificato. Ma non può bastare: le associazioni ambientaliste protestano, si sentono tradite. I 5stelle cominciano così un percorso che appare incerto e contraddittorio sull’immunità penale: con il decreto Crescita (governo con la Lega) la eliminano completamente, con il decreto Imprese la ripristinano, ma limitata ai problemi ambientali e strettamente collegata ai tempi previsti dal piano ambientale.
La minaccia di fuga di ArcelorMittal – Ma dopo essere stato approvato salvo intese in un consiglio dei ministri in cui c’era ancora la Lega il testo arriva alla conversione in Parlamento e la maggioranza stralcia lo scudo penale dal testo. ArcelorMittal, così, resta senza alcuna protezione e garanzia: la multinazionale conferma che senza quella protezione non si può gestire la fabbrica. Lo avevano detto già in passato, in tempi non sospetti. E sul futuro del colosso franco-indiano in Puglia pende anche lo spettro di una crisi del mercato dell’acciaio, oltre a impianti vecchi e un “clima ostile” come lo definiscono i nuovi proprietari dell’ex Ilva. A Taranto esplodono incertezza e paura, ma non fanno rumore: nessun corteo, nessuna protesta plateale. I dubbi sul futuro serpeggiano silenziosamente tra gli operai e le famiglie che come in film già visto tornano indietro di sette anni e, senza scendere per le strade, si ritrovano ancora una volta fermi, in attesa.