C’è un film in cui Fabio De Luigi non recita da comico. E già questa è una notizia da segnare sul calendario. Se poi De Luigi si rivela perfino bravo e credibile (diciamolo subito: pare il protagonista di Breaking Bad) in un ruolo serissimo, cupo, criminale, allora un’occhiatina a Gli Uomini d’oro bisognerà dargliela.
Heist movie, o film di rapina, livido e grigio, catapultato in un atmosfera anni novanta da metropoli del Nord che sembra uscita dal Puerto Plata Market di Aldo Nove, il film diretto da Vincenzo Alfieri sorprende e spiazza la pletora di adoratori del cinema di qualità che trova il suo equilibrio filosofico e politico nei tinelli di case perbene da almeno vent’anni. Non proprio classica la rapina alle poste architettata dal bel Luigi (Giampaolo Morelli), autista del portavalori Poste&Telegrafi che escogita la possibile fuga in Costa Rica inondata da qualche miliardino delle vecchie lire. Nel tragitto che ripete costantemente tutti i giorni un omino piccoletto come l’amico Luciano (Giuseppe Ragone) riuscirebbe a nascondersi dentro la cassaforte in disuso del furgoncino, e mentre vengono depositati i sacchi con i contanti di ogni succursale, diciamo all’incirca ogni cinque/dieci minuti, potrebbe scambiarli con altri sacchi riempiti di mazzette con generica carta.
Ovvio, serve l’aiuto di Alvise, l’ombroso impiegato delle poste (De Luigi) che tutti i giorni gli si siede a fianco incazzato col mondo e con i meridionali (juventini) proprio come Luigi e Luciano. Attenzione: nessuna nuance ironica. Gli scontri tra protagonisti sono tutti aspri e a tratti furiosi. I retroterra dei singoli sono drammaticamente compatti: da quello del disilluso playboy Luigi al pesante quadretto familiare di Alvise. E oltre la nebbia torinese del 1996 non c’è speranza di rosei futuri per nessuno.
Suddiviso in tre capitoli/punti di vista (Luigi, Alvise e infine il terzo complice, un uomo d’azione e di sostanza come il Lupo, un duro Edoardo Leo nell’apprezzabile sforzo di non romanizzarsi), più finale forse un filino farraginoso, Gli Uomini d’oro è materia fine e luccicante per la nostra industria cinematografica che vuole rilanciarsi oltre le risatone natalizie e oltre confine. Da un lato c’è tutto il glam da character poster dei protagonisti che somiglia molto al mondo cinecomic; dall’altro c’è un racconto senza sbavature, realistico quanto basta nel ricreare i novanta (le frange, le fronti alte, gli abiti, la disco), che prende subito il ritmo alto dell’azione e ripropone kurosawamente i diversi angoli di sguardo sulla rapina senza spargimento di sangue. Intelligente ed efficace anche questo sottotesto, utilissimo nel finale, di uno scontro guelfi-ghibellini tra juventini e torinesi. Nulla di prosaicamente idiota, ma tutto ampiamente fatto salire a rango di differenziazione culturale esiziale.
Insomma, finalmente un po’ di sana cattiveria di marginali dropout contro il binomio legge&ordine. In questo, il film di Alfieri ha molto a che spartire con i tentativi di genere di un Matteo Rovere (Il primo re, Veloce come il vento) che strizzano l’occhio ad una sostanza che va oltre il paradigma intoccabile dell’autorialità srotolandosi felice verso un oggetto di consumo più commerciabile. Co-sceneggiato da un solido pool di autori (Alessandro Aronadio Renato Sannio e Giuseppe Stasi) Gli Uomini d’oro si avvale infine di un cast seriamente in palla. Bravi tutti, davvero, perfino le donne comparsa (Matilde Gioli sempre magnifica; il finissimo contrappunto di Susy Laude; la femme fatale Mariela Garriaga) che stuzzicano e incrinano il quadro maschile in diversi punti del racconto. Di film alla Uomini d’oro datecene di più. Così il cinema tornerà a vivere.