Sarà stato per le maglie gialle, come il colore simbolo del partito, oppure per il vecchio sponsor Al-Manar, un'emittente televisiva di proprietà di Hezbollah, ma uno dei primi ad accostare il club di Beirut al "Partito di Dio" è stato Netanyahu. Secondo Bibi, nelle vicinanze dello stadio si nasconderebbe addirittura una base missilistica di uno dei grandi nemici di Israele
Mentre le proteste popolari nel Sud del Libano ne fanno vacillare i consensi, come quasi mai accaduto in passato, Hezbollah si consola con il calcio: il 4 novembre l’Al-Ahed, la “sua” squadra come l’hanno definita un po’ tutti i media del pianeta, ha battuto di misura i nordcoreani del 25 Aprile, la formazione dell’esercito di Pyongyang, conquistando la AFC Cup, una sorta di Coppa Uefa in salsa asiatica. Sarà stato per le maglie gialle, come il colore simbolo del partito, oppure per il vecchio sponsor Al-Manar, un’emittente televisiva di proprietà di Hezbollah, ma uno dei primi ad accostare il club di Beirut al “Partito di Dio” è stato il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Secondo Bibi, nelle vicinanze dello stadio dell’Al-Ahed, situato nella Danieh (periferia sud della capitale), si nasconderebbe addirittura una base missilistica di Hezbollah, uno dei grandi nemici di Israele: “È la squadra di Hezbollah”, ha dichiarato Netanyahu in un discorso tenuto nel 2018 alle Nazioni Unite, riferendosi proprio all’Al-Ahed.
Il club libanese ha seccamente rispedito al mittente le insinuazioni del leader del Likud, ma tutto nel mondo dell’Al-Ahed sembra essere legato a doppio filo con Hezbollah, un’organizzazione sciita, filo-iraniana e antisionista: “Molti funzionari di Hezbollah sono poi diventati dirigenti dell’Al-Ahed. Senza contare i discorsi celebrativi tenuti da Hassan Nasrallah, il segretario generale del partito, all’indomani della conquista dei campionati da parte dell’Al-Ahed” spiega Uri Levy, giornalista israeliano fondatore del portale BabaGol e grande esperto di calcio mediorientale.
Anche i calciatori non sono immuni a tutto questo. Prendete ad esempio la storia di Kassem Shamkha. Faceva il centrocampista e aveva solo diciannove anni quando nel 2016 ha abbandonato il calcio, scegliendo di unirsi alle truppe di Hezbollah per andare a combattare l’ISIS in Siria al fianco dell’esercito del presidente siriano Bashar al–Assad. Ma dal fronte non sarebbe più tornato, trovando la morte in battaglia. L’Al-Ahed, tramite le parole del segretario generale Mohammad Assi, lo ha ricordato come un eroe, riconoscendogli un posto speciale nella hall of fame del club: “Rimarrà nella storia del club, perché è stato un eroe dappertutto. Prima in campo e poi in battaglia, dove ha combattuto con onore per difendere la patria”. Del resto, entrato nel settore giovanile dell’Al-Ahed nel 2009, all’età di 10 anni, Shamkha veniva considerato uno degli astri nascenti del calcio libanese. E solo pochi mesi prima di morire nei pressi di Aleppo, in circostanze mai del tutto chiarite, era sceso in campo a Sidone nella finale di Youth Cup, risultando uno dei protagonisti del trionfo del “Castello Giallo“, così com’è conosciuto popolarmente l’Al-Ahed in Libano: “Aveva un grande talento calcistico, avrebbe sicuramente fatto le fortune della nostra squadra e del Libano per molti anni”, ha aggiunto Assi con un po’ di rammarico.
Se avesse continuato con il calcio, probabilmente, Shamkha avrebbe partecipato al ciclo d’oro dell’Al-Ahed. Fondato nel lontano 1964 in un quartiere della periferia sud di Beirut, ma costretto a traslocare nella zona dell’aeroporto Rafic Hariri per via delle note questioni belliche, negli ultimi anni il Castello Giallo ha letteralmente dominato la scena calcistica libanese, lasciando solo le briciole ai rivali: l’Al-Ahed, per dire, ha vinto sette titoli negli ultimi undici anni ed è ininterrottamente campione dal 2017. Un monopolio quasi assoluto, ma che non stupisce più di tanto dando un’occhiata alla rosa dei gialloblu, incomparabile per profondità e valori tecnici a quella delle rivali più accreditate come Al-Ansar e Nejmeh, la squadra con cui Pelé giocò un match d’esibizione negli anni ’70.
L’Al-Ahed è anche uno dei pochi club libanesi a potersi permettere l’ingaggio di giocatori stranieri, un requisito pressoché fondamentale per ottenere successi al di fuori dei confini nazionali: non a caso, oltre ad autentiche colonne portanti della nazionale libanese come l’attaccante Mohamed Haidar, l’estrosa ala Rabih Ataya, e il portiere Medhi Khalil, premiato come miglior giocatore dell’ultima AFC Cup, alla base delle fortune del Castello Giallo ci sono anche il il bomber tunisino Ahmed AkaÏchi e l’incursore ghanese Issah Yakubu, match-winner della finale di AFC Cup con i nordcoreani del 25 Aprile. Un trionfo arrivato alla fine di una cavalcata sontuosa, iniziata a febbraio con i giordani dell’Al-Qaidsa e conclusa otto mesi più tardi senza mai conoscere l’onta della sconfitta: “Quella dell’Al- Ahed è stata una campagna eccezionale, straordinaria”, si è congratulato il presidente dell’AFC, lo sceicco bahrenita Salman bin Ibrahim Al Khalifa, estendendo i complimenti a tutto il movimento calcistico del piccolo Stato del Vicino Oriente. “Il gol che ho segnato oggi non è importante solo per me o per la squadra, ma per tutto il Paese”, gli ha fatto eco Issha Yakubu, l’uomo della storia. Perché, dopo le delusioni in finale del Nejmeh nel 2005 e del Safa (la formazione di riferimento della comunità drusa) nel 2008, l’Al-Ahed ha sfatato un tabù storico, mettendo per la prima volta il Libano sulla mappa calcistica dell’Asia.