Questo articolo è stato pubblicato da FqMillennium, il mensile d’inchiesta diretto da Peter Gomez. Nel numero di giugno FqMillennium aveva raccontato da dentro uno dei rave party che da tempo si svolgono nella fabbrica ex Delphi di Livorno. Gli autori di questo articolo avevano raccontato dell’evento di Pasqua, Pasquatek. Qui puoi acquistare tutti i numeri di FqMillennium.

“Ragazzi volete un po’ di speed? Lsd? Cioccolata?”. Non è un nome in codice per qualche strana pasticca: Ludovica, una cascata di rasta e un cane lupo al guinzaglio, ci sta veramente offrendo quel che resta di un uovo di cioccolata. Dopotutto è Pasqua anche qui, nella notte senza fine di un rave party. Siamo al Pasquatek, una delle feste illegali più grandi in Italia: un teknival, per essere precisi, tre giorni a base di musica techno e droghe. No, i rave non sono scomparsi, anzi. Il luogo scelto (in gran segreto) per la lunga festa di Pasqua è l’Ex Delphi di Livorno, fabbrica abbandonata e temporaneamente occupata da migliaia di persone arrivate da tutt’Italia grazie al passaparola.

SABATO – Trovare un rave – uno vero, non una festa techno nei locali – è pressoché impossibile se non sei nel giro. Anche su Internet. Perfino sui gruppi Facebook vige la discrezione più assoluta. Il messaggio tipo è “cerco un passaggio da Torino per la festa”: o sai già di che festa si parla oppure brancoli nel buio. Chi prova a scucire qualche informazione viene ricoperto di insulti: basta poco perché la polizia lo venga a sapere, compromettendo la serata.

Proviamo a contattare in privato qualcuno per chiedere informazioni. Margherita ci scrive che “non dovrebbe essere sotto al centro della Toscana“. Vago, oltre che criptico. Poi, visto che non le rispondiamo da un po’, diventa aggressiva: “Non pigliatemi per il culo”. Sara ci liquida con un “ask your friends“. Sabato, il rave dovrebbe essere già iniziato e noi ancora non sappiamo nulla. C’è molta paranoia prima dell’evento e l’anonimato di Internet non aiuta. Gira una foto con l’avvertimento: “Se lui vi chiede informazioni sul Pasquatek ditegli che non sapete nulla: sbirro al 100%“.

La fuga di informazioni fa arrabbiare gli amministratori del gruppo: “Come fate a saperlo, siete amici di Harry Potter? Saprete tutto a tempo debito”. Tempo debito, scopriamo, significa la mattina di Pasqua: il luogo è un’ex fabbrica di componenti automobilistiche di Livorno, che ha una lunga tradizione di rave party. Ce lo spiega Pablo Pistolesi, in arte Pablito el Drito. Pochi conoscono le origini della scena rave italiana come lui, che l’ha vissuta in prima persona. Dj, produttore e scrittore, nel suo ultimo libro, Rave in Italy (AgenziaX), raccoglie le interviste ai protagonisti dei rave anni Novanta. “Livorno ha una storia interessantissima, era uno dei luoghi in cui sostavano le carovane di raver: le prime grandi feste sono state lì”.

DOMENICA, ORE 22 – Prepariamo uno zaino e ci mettiamo in viaggio, senza sapere se effettivamente troveremo qualcosa: i giornali locali segnalano il rave e parlano di “sgomberi”. In realtà, a parte una volante e qualche identificazione, la festa procede indisturbata. Arrivati a Livorno, non è difficile individuare il luogo giusto: l’eco della musica si sente da lontano. “Si può portare da bere dentro?”, chiediamo a un ragazzo con una birra in mano. “Tranquillo amico: no pula, no problema“.

All’ingresso – gratis – una ragazza ci offre un “drink” di benvenuto: “Speed?”. Grazie, a posto così. L’Ex Delphi è un enorme spazio vuoto con pilastri in cemento, calcinacci e lamiere ovunque. Uno scenario da film post-apocalittico, una specie di Mad Max sulla costa tirrenica. Appena gli occhi si abituano all’oscurità e alle luci psichedeliche, mettiamo a fuoco le sagome delle persone. Difficile fare una stima: centinaia, forse un migliaio in totale. Nel capannone, sono parcheggiate decine di auto e camper. Sul pavimento spuntano come funghi le tende da campeggio: nell’occhio del ciclone, al centro della festa, la gente dorme in quel bozzolo di nylon. Succede anche questo, nella psichedelica corte dei miracoli dei rave. Un grande e prolungato rituale laico e nichilista.

I rave party sono figli della fine degli anni ’80, in antitesi a un mondo occidentale grondante di edonismo e di ottimismo capitalistico. Nascono dalle ceneri della controcultura hippy e del movimento punk: gruppi di persone che non si riconoscono nella società cominciano a organizzare feste nelle fabbriche abbandonate, prima negli Stati Uniti, poi in Europa. “Il rave è stato la new thing degli anni ’90 – sottolinea Pablito – in Italia è legato alle periferie metropolitane. Le persone interessate alla musica elettronica iniziano a ritrovarsi e a creare questi eventi. C’era chi aveva l’impianto, chi faceva il dj, chi si improvvisava barista o decoratore. Negli anni ’90 c’è stata una forte deindustrializzazione. Noi trasformavamo un luogo di lavoro ormai in disuso in una festa accogliente. Tutto era autogestito e autorganizzato”.

La musica elettronica, la techno e la acid house diventano l’epicentro di feste che durano giorni. I raver si riappropriano temporaneamente di aree abbandonate e sperimentano stati di alterazione della coscienza. Vogliono combattere così la proprietà privata, il consumismo, la produzione commerciale di massa. Una lotta che non si concretizza in movimenti politici: è finito il tempo delle ideologie, il muro di Berlino è caduto, il mondo corre veloce verso la globalizzazione. La sfida con la società è persa, non resta che trovare un’oasi che per qualche ora restituisca un’uguaglianza dal sapore utopico.

ORE 1:00 – Nel suo libro, Pablito racconta di come i rave funzionassero da grandi “miscelatori sociali” tra gruppi diversi ma accomunati dalla passione per la musica: “Sia la cultura skinhead che un certo futurismo cyberpunk erano compatibili con i rave. Si mischiavano elementi ancestrali e iper-moderni, tecnologia e punkabbestia, bomber e teste rasate”. All’Ex-Delphi ci sono anche ragazzini con le felpe Adidas e i motociclisti con le giacche di pelle. Quarantenni con i pantaloni cargo e ventenni con le calze a rete e le Buffalo, le antiestetiche scarpe anni ’90 tornate di moda. Ragazze con chiome rosa o azzurro puffo e raver della prima ora con i capelli grigi. Persone diverse, ma con un desiderio in comune: evasione. Il rave rappresenta una fuga – breve e illusoria – dalla società, con i suoi ritmi e le sue imposizioni. Una bolla dove perdersi nella techno e negli stupefacenti per ritrovare la libertà, anche se è una libertà fatta di negazione e dipendenza.

I rave, conferma Pablito, sono tutt’altro che scomparsi: “Solo in Lombardia, ogni fine settimana ci sono cinque o sei feste illegali. Dal gruppo di amici che butta quattro casse nel bosco ai teknival come il Pasquatek. Ormai la prassi del rave, l’idea che sia giusto e fattibile fare feste così, è diffusa. Ma negli ultimi anni in Italia è aumentata gradualmente la repressione, soprattutto con questo governo e il pacchetto sicurezza di Salvini”.

ORE 2:00 – Le persone sciamano verso la consolle, attratte dal richiamo della techno. Nella cultura rave, il dj passa in secondo piano rispetto alla musica e infatti è nascosto da un muro di amplificatori. Il suo compito non è tanto quello di intrattenere, ma di condurre i raver in un viaggio allucinante, nelle viscere del suono e di loro stessi. La cassa è religione: le persone la toccano, quasi per entrarci dentro, vibrano della loro stessa vibrazione. La techno cresce e rallenta, poi accelera di nuovo, al limite della vertigine. Tum-tu-tum-tu-tum. Trascina, è un vortice: lo senti nelle ossa prima che nelle orecchie. Ma non si crea mai la ressa che preme e spintona: ognuno ha il suo spazio, il suo viaggio solitario, trasportato dalla musica o dalla droga.

A pochi metri dalla consolle, c’è chi tira strisce di coca dagli schermi degli smartphone. Questo è più o meno il principale utilizzo che si fa dei cellulari: a parte qualcuno che si ostina a riprendere, al buio, il martellare delle casse, sono ben poche le persone che lo tengono in mano. “Quello che è cambiato in questi 20 anni – commenta Pablito – è la tecnologia. All’epoca i cellulari costavano mezzo stipendio, gli smartphone sembravano fantascienza. Con internet il rave, da segreto per iniziati, ha acquistato risonanza”. Ma l’anonimato è ancora un valore: chi va a un rave vuole estraniarsi da tutto, non certo sbandierare la sua nottata al mondo. Niente selfie, niente storie su Instagram.

ORE 2:30 – La droga, in un rave, circola liberamente: per controllare cosa gira e quanto, però, c’è un gazebo di “pronto soccorso chimico”, per così dire. Sono i ragazzi di Lab57-Alchemica, un progetto nato a Bologna 20 anni fa che si occupa di fornire supporto informativo e aiuto pratico nel corso dei rave. Li incontriamo sotto la tettoia del loro camper, dove offrono acqua, biscotti, mentine e preservativi. Kit di sopravvivenza pratica. Distribuiscono soprattutto volantini stampati fitti fitti che spiegano gli effetti di diverse sostanze: Mdma, ketamina, popper, eccetera. Sono indicati i rischi, le modalità di assunzione e le controindicazioni: dei veri e propri bugiardini. “Non condanniamo né incoraggiamo il consumo di droga”, spiega Giacomo, 35 anni, volontario. “Ho iniziato a drogarmi 10 anni fa, far parte di questo progetto mi sembrava un bel modo di aiutare gli altri”. Il loro approccio si chiama “riduzione del rischio” e si basa su un’idea antiproibizionista: credono cioè che un uso consapevole delle droghe possa prevenire i rischi, ridurre i danni e contenere gli abusi. Ci indica la “chill-out zone”, un grande tappeto dove le persone possono sdraiarsi per riprendersi dagli incessanti ritmi della festa. Un cartello avverte: “no pippatoio”.

Dentro a un camper tappezzato di adesivi, invece, una persona si occupa di effettuare i test rapidi per le sostanze: “Analizza la purezza delle droghe che i consumatori portano e, quasi in tempo reale, rivela cosa contiene lo stupefacente che si sta per assumere”, dice Giacomo. “Complessivamente, la qualità delle droghe che analizziamo è buona, nel senso che non sono mischiate con schifezze e sono abbastanza pure anche se – avverte – sono molto più forti di un tempo”.

Un ragazzino si avvicina e fissa per un po’ il tavolo su cui sono appoggiati i generi di conforto. “C’hai mica la cioccolata?”, chiede in un livornese strascicato. Rifiuta i biscotti: “Mi va proprio la cioccolata”. Appena si allontana, Giacomo ci spiega: “Se arriva un ragazzo che è alle prime esperienze con la droga, cerchiamo di spaventarlo; se porta pastiglie troppo grosse gli diciamo di prenderne al massimo la metà della metà”. Poi ci indica un caravan: “Non so se ci avete fatto caso, ma ci sono dei peruviani che stanno facendo la coca qui, a chilometro zero“. In effetti avevamo notato delle persone con una bacinella e un dosatore graduato, ma sembravano alle prese con un impasto. E invece, polvere bianca dal produttore al consumatore.

Si dice spesso che sono state le polveri a uccidere i rave. Di sicuro, dice Pablito, li hanno cambiati. Le droghe ci sono sempre state, però non c’era “il supermarket” che si è verificato alle soglie del nuovo millennio. “La ketamina l’ho vista per la prima volta in Italia nel 1997, ma è decollata solo dopo il 2000”.

A cambiare davvero le cose è stato Internet: “La musica è diventata fruibile in tempo reale in qualsiasi angolo del pianeta, portando a un generale appiattimento”. Pablito si affida alla metafora culinaria: “Prima, per provare la mozzarella, dovevi venire in Italia. Oggi con la globalizzazione trovi ovunque brutte copie della bufala. Con l’esplosione di Internet c’è stato il vero cambiamento. Arrivava altra gente che non faceva parte del circuito delle controculture. Spesso venivano dal mondo delle discoteche, portando altre droghe. Ho visto raramente la cocaina negli anni ’90, era considerata una droga borghese. Anche le pasticche finte, le ‘droghe-pacco’, sono entrate quando il giro si è allargato”.

ORE 3:30 – Un ragazzo dorme sotto una cassa: le persone collassano dove capita, sul pavimento o sulle sedie di plastica dei chioschi improvvisati che vendono panini e birra a prezzi politici. Hot dog: 3 euro. Shot: 2 euro. Hamburger: 3,50 – recitano dei fogli scritti a mano. Usciamo fuori, dove un gruppo di writer fiorentini dipinge un muro con i rulli. Dei falò rischiarano lo spiazzo. Nella penombra, vediamo persone camminare sopra il tetto di un edificio in cemento. Tre ragazzi ci fermano per chiederci la marijuana. Spiacenti. Sorprendentemente, è la cosa più difficile da trovare. Sono arrivati ieri da Chioggia, in Veneto: “Abbiamo le tende, ma in realtà non abbiamo dormito”. Diciannove anni, sono matricole universitarie: “Ingegneria è difficile – raccontano – poi torni a Chioggia la sera e non c’è nulla da fare, mai. Per forza che siamo venuti”.

Per loro, come per quasi tutti, il rave è il posto dove poter mettere in pausa il resto del mondo. “All’inizio il rave doveva rimanere un segreto per degli iniziati – chiosa Pablito – Non per snobismo, si sapeva che non era una cosa per tutti, ed è illegale. Era una fuga dagli obblighi del lavoro, dalla famiglia, dalle identità sessuali binarie, dal senso del dovere, dalla logica del consumo. Chiaro che molte di queste cose si sono poi dimostrate false, contraddittorie”.

Eppure, il rave per molti è ancora la tana del Bianconiglio, attraverso cui entrare nel proprio allucinante paese delle meraviglie, almeno per qualche ora.

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