E se avessimo ragione noi, i Verdi, un piccolo partito che da anni chiede la conversione dell’ex Ilva circondato da un mare d’indifferenza e ostilità?
E se avesse ragione Angelo Bonelli che si batte da tempo per trasformare la fabbrica della morte e mettere in campo un percorso di riconversione ecologica?
E se avessero ragione tutti quelli, e noi tra quelli, che predicano che tra la borsa e la vita si debba scegliere la vita? Un altro tipo di vita, di sviluppo, che brutta parola (nel suo nome se ne combinano di ogni, vero Calenda?), di società, magari, più verde, più giusta, più equa?
E se avessero ragione gli analisti di mercato che spiegano che in giro c’è più acciaio di quanto se ne abbia bisogno? Che c’è un surplus di offerta? Chi pensa a un ricatto per ottenere il ripristino della “immunità penale” si sbaglia di grosso. Il calcolo è cinicamente economico: due milioni di euro al giorno in un contesto globale di calo della domanda. È la pura verità.
I fatti, nella loro crudezza, sono questi: ArcelorMittal ha deciso di abbandonare l’ex Ilva, la più grande acciaieria d’Europa che, tra Taranto, Genova e indotto, occupa circa 10.700 lavoratori. Un disastro annunciato che i vertici della multinazionale cercano, come sempre si fa in queste circostanze, di scaricare altrove:
– il venir meno dell’immunità penale sul piano ambientale con il decreto Imprese, da pochi giorni convertito in legge;
– il rischio di veder spento l’altoforno 2 per la mancata adozione delle prescrizioni di sicurezza e, a seguire, per le stesse ragioni, degli altiforni 1 e 4;
– “il generale clima di ostilità” che rende impossibile la gestione dell’azienda.
Per questi motivi la multinazionale dell’acciaio si chiama fuori dalla gestione del gruppo e lo riaffida ai commissari, e quindi allo Stato. Tutte storie, per usare un eufemismo: l’immunità non è mai stata eliminata.
Perdonate il linguaggio burocratico: il decreto legge 1/2015 con le modifiche introdotte con il dl 98/2016 stabilisce che, per quanto riguarda l’affittuario o l’acquirente e ai soggetti funzionalmente delegati ai sensi dell’art. 2 comma 6 ultimo periodo del dl 1/2015 e dopo l’entrata in vigore del Dpcm (Decreto della presidenza del Consiglio del ministero) del 29 settembre 2017, l’operatività dell’esimente, l’immunità, ha un limite di 18 mesi dall’approvazione del Dpcm. In altre parole, la scadenza è 30 marzo 2019. Ripeto: 30 marzo, e oggi siamo agli inizi di novembre.
In Italia, aggiungo, i magistrati fanno il loro lavoro, che è quello di perseguire i reati e tutelare la salute pubblica. Se sono costretti a intervenire, è per la latitanza della politica che preferisce voltare la testa dall’altra parte o rincorrere il sogno impossibile di un ritorno al Novecento quando l’emergenza climatica era soltanto in mente Dei e Berlusconi un ragazzino.
Per uscire da questo vicolo cieco, una volta per tutte, non c’è che una strada: riprendere il decreto per Taranto che Angelo Bonelli presentò alla Camera dei Deputati cinque anni fa, il 23 dicembre 2014, in continuità con quanto proposto nell’ottobre 2010: riconversione ecologica dell’ex Ilva. Come hanno fatto in Germania, nel bacino carbonifero della Ruhr, o a Pittsburgh o a Bilbao, tanto per fare qualche esempio virtuoso.
Il decreto prevede la procedura per l’applicazione del danno ambientale (art. 300 del codice dell’ambiente) e l’avvio della messa in sicurezza e delle bonifiche nel Sin di Taranto, il rilancio delle attività economiche e occupazionali di Taranto e della sua provincia con la No Tax Area, con un Fondo temporaneo di sostegno per l’agricoltura e la mitilicoltura, con progetti di riqualificazione, trasformazione e rigenerazione urbana e ambientale a partire dai suoli contaminati che devono essere risanati.
Per riqualificare gli operai e bonificare il territorio si possono utilizzare i fondi europei. Gli strumenti ci sono, basta volerli usare. E anche i sindacati dovrebbero avere il coraggio di “convertire” la loro battaglia: in nome della salute e del diritto alla vita dei lavoratori e delle loro famiglie.
Per quel che riguarda “il generale clima di ostilità” evocato dai vertici aziendali, non voglio fare inutili polemiche, ma mi limito a constare che a Taranto si continua, purtroppo, a morire. E muoiono non solo gli operai, ma i bambini e le bambine, le donne e gli uomini, costantemente esposti ai veleni. Per non dire delle morti sul lavoro, come quella tragica dell’operaio ucciso da una colata di ghisa.
Già a gennaio-febbraio di quest’anno i dati raccolti da Arpa Puglia raccontano di un incremento del 195 per cento degli Ipa, 150% di benzene, 111% di idrogeno solforato e di incrementi superiori al 20% per Pm10 e Pm2,5 rispetto agli stessi mesi del 2018. Come dire: la situazione non è sotto controllo.
L’emergenza climatica non è soltanto uno slogan. In Italia si fa poco, pochissimo, per scongiurarla. In barba alle dichiarazioni d’intenti, non tutte oneste in verità, l’esecutivo non sembra avere imboccato la giusta strada. Né Matteo Salvini e i suoi accoliti, che hanno governato questo Paese per molti anni – troppi, aggiungo – hanno saputo fare di meglio. Anzi. Per non dire di Matteo Renzi e dei suoi predecessori del Pd.
Il mondo è cambiato. Sarebbe stupido e irresponsabile fare finta di nulla: un altro mondo è possibile, un’altra economia è possibile, un’altra Taranto è possibile. Basta spingere gli sguardi più in là, provare a immaginare un futuro senza ricorrere a scorciatoie elettorali come fa il buon Renzi, sempre a caccia di facile consenso. La sua promessa, “porto io la nuova cordata”, è la misura del suo fallimento e di una classe dirigenziale tutta.
Facciamo tesoro delle esperienze virtuose di cui abbiamo detto poco sopra: convertiamo l’ex Ilva in un polo di ricerca avanzato e tecnologico, di cultura, di studio e, soprattutto di benessere e di vita. L’Italia deve diventare il Paese che oggi non è: ecologico, solidale, equo e con un piede nel futuro. Non ci stancheremo di ripeterlo.