Per chi abita a Roma l’immagine di una ruspa con la benna sollevata sopra il tetto di una baracca abitata da famiglie rom in fuga è qualcosa di familiare, come l’abete natalizio a piazza Venezia: fa parte della storia recente della città, ci si passa dinanzi commentando, riguarda tutti e non riguarda nessuno. Sotto amministrazioni diverse, di ruspe, di baracche e di abeti se ne sono visti tanti e diversi; eppure, dopo lo sguardo rapido e distratto dei romani, la vita della città è andata ugualmente avanti come nulla fosse.
E così è passato sotto la più completa indifferenza un post pubblicato da un’autorevole amministratore locale che, nel presentare la foto di un insediamento abitato da famiglie rom come era prima dell’arrivo della ruspa e come era dopo – come fosse l’esito di un bombardamento bellico – aveva commentato: “Avevamo promesso impegno e rigore in tema di legalità. Come vedete siamo stati di parola”. Essere di parola nel radere al suolo la casa di uomini, donne e bambini? Tanti lo sono stati prima di oggi.
Le prime testimonianze di sgomberi a Roma le abbiamo nella primavera del 1974, quando alcune famiglie rom accampate su un fazzoletto di terra a Setteville, periferia orientale della Capitale, si videro di notte circondati dal Carabinieri che gli intimarono, prima di procedere con le distruzioni, “di sparire materialmente e moralmente”. I romani ricordano poi gli sgomberi imponenti del 1988, quando si chiusero i mega campi di Ponte Marconi e di Tor Bella Monaca.
Fu il sindaco Francesco Rutelli il primo a rivestire di una valenza simbolica lo sgombero di rom chiamandolo “bonifica”. L’amministrazione capitolina parlava il linguaggio della ruspa e i rom si muovevano, con la domanda che si levava: “Si spostano perché sono nomadi o sono nomadi perché c’è la ruspa?”. Sotto Walter Veltroni la prassi dello sgombero diventa parte viva delle politiche pubbliche, componente fondamentale del “Piano rom”. Giorni fa un consulente di quell’amministrazione mi raccontava quelle vicende riportandole su un piano morale: “Quando uno partecipa ad uno sgombero non è mai solo vittima, è anche ‘carnefice’ perché partecipa attivamente. Giunge poi un momento nel quale il sistema ti esalta anche, tu sai che devi farlo e allora ci devi aggiungere delle dosi di cinismo per farlo al meglio e nel migliore modo possibile. Quando gli sgomberi si accumulano, l’ultimo sgombero non ti fa più alcun effetto”.
Ci si abitua e si perde il senso delle cose. Solo così si spiega la naturalezza con la quale, in una conferenza stampa, il 5 dicembre 2007 il sindaco Veltroni annunciava il suo “bollettino di guerra”: “Circa 6mila persone spostate da gennaio a novembre; 995 manufatti abusivi abbattuti da febbraio al mese scorso”. Le famiglie non sono più “sgomberate”, ma “spostate” e quelle abbattute non sono più “case” dove vivono famiglie povere ma “manufatti abusivi”. Si cambiano i termini e si perde il senso delle azioni: aiuta la coscienza a fare i conti con se stessa.
Nella campagna elettorale di Gianni Alemanno la promessa di espellere 20mila “nomadi” dalla città prese forma con una serie di azioni violente che interessò rom di cittadinanza jugoslava, spostati nei “villaggi attrezzati”, e cittadini rumeni, costretti a fuggire per nascondersi negli anfratti più nascosti con la Polizia alle costole. Nessuna discontinuità sotto la giunta di Ignazio Marino e con il commissario straordinario Tronca.
Con l’avvento della giunta di Virginia Raggi un’ulteriore dose di cinismo sembra essersi aggiunta, nella prassi e nella comunicazione. Prima le ruspe arrivavano all’alba, quasi di nascosto, mentre le persone raccoglievano le loro poche cose e gli amministratori di turno si affrettavano a trovare giustificazioni. Oggi quando si mette in moto la ruspa le famiglie sono sparite, vittime da giorni di minacce da parte delle forze dell’ordine: se non scompaiono la mattina dello sgombero, la prima cosa che verrà tolta alle mamme saranno i loro figli.
Ma anche la comunicazione è cambiata. Fare lo sgombero è come pulire un parco o spazzare un marciapiede, e allora trova senso scattare un selfie, o raccontare un “prima” e un “dopo”, anche se fatto di macerie. E in mezzo si infila con disinvoltura la parola “legalità”, come se fosse legale buttare giù abitazioni di povera gente ignorando le basi del diritto internazionale. Anche così si salva la coscienza.
Ma con i rom baraccati, si sa, non è legale ciò che risponde al diritto, ma ciò che anticipa e precede il consenso e che colpisce la parte più debole di una cittadinanza “imperfetta” e indifendibile. Facile, sin troppo facile, e miseramente vigliacco.