La petizione de Il Fatto quotidiano chiede che governo e Parlamento appongano una toppa legislativa alla sentenza della Corte Costituzionale che ha bocciato il cosiddetto ergastolo ostativo, di fatto consentendo ai boss mafiosi e ai terroristi, persino quelli condannati a più ergastoli per omicidi e stragi, di poter accedere a vantaggi premiali, come i permessi, purché siano partecipi di un “percorso rieducativo”.
Rispettare la sentenza della Consulta e analoghi pronunciamenti della Corte Europea dei diritti dell’uomo, ineccepibili in punto di diritto, non significa sottrarsi dalla responsabilità politica di farsi carico delle sue conseguenze potenzialmente funeste. Attraverso la forza del diritto si possono riaffermare valori di ordine superiore. Altrimenti, nel vuoto e nel silenzio della politica, le sentenze di quei giudici rischiano di caricarsi di un peso insostenibile sulla coscienza civile. È il momento di richiamare la politica ai suoi doveri, in primo luogo quello di ricucire con norme di buon senso il tessuto connettivo del nostro vivere civile, che quella sentenza rischia di smagliare.
Vi sono buone ragioni “tecniche” per sollecitare un intervento correttivo della classe politica. Non ultima, l’esigenza di proteggere i giudici di sorveglianza dal rischio di rappresaglie nel vedersi affidati, con una decisione altamente discrezionale, destini, spazi di vita e “reinserimento sociale” di sanguinari terroristi o capimafia.
Per questo l’avvio di un “percorso rieducativo”, precondizione necessaria per la concessione dei benefici, deve essere precisato meglio nei suoi contenuti e limiti, sciogliendolo di quelle ambiguità che oggi ne contraddistinguono l’applicazione, ristretta spesso a una generica “buona condotta” carceraria che nessun boss degno di questo nome – in quanto “uomo d’onore” e d’ordine – si farà mancare. Ed è bene che tale decisione sia collegiale, non imputabile a un singolo magistrato, altrimenti facile bersaglio di avvicinamenti, intimidazioni, corruzione.
Esiste però anche un’altra motivazione di principio utile a risparmiare ai cittadini italiani il deplorevole spettacolo di boss mafiosi duri e puri, ancora fedeli alla loro causa criminale, intenti a beneficiare di generose premialità di Stato. I clan mafiosi sono entità adattabili e multiformi, in grado di svolgere attività di matrice sia imprenditoriale che politica. Organizzano traffici illeciti, accumulano e reinventono profitti da un lato, dall’altro esercitano un controllo militare e di intelligence dei territori presidiati, riscuotono imposte, risolvono controversie, comminano punizioni.
Il potere “politico-mafioso” si manifesta applicando mezzi di coercizione in forme arbitrarie e imprevedibili, dunque non può che dispiegarsi in concorrenza o in contrapposizione al monopolio reclamato dall’autorità statale nell’impiego legittimo e regolato della violenza. In uno scontro campale, nella guerra aperta con lo Stato gli sparuti gruppi mafiosi sarebbero di sicuro soccombenti.
Per questo da sempre fiaccano il corpaccione molle dello Stato relazionandosi ai suoi rappresentanti con un’alternanza di lusinghe, corruzione, collusioni, intimidazioni, allettamenti, eliminazione selettiva. Le parole del giudice Paolo Borsellino chiariscono bene questo punto: “Politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d’accordo”.
La storia d’Italia ci racconta come la strategia del “mettersi d’accordo” tra esponenti dell’organizzazione mafiosa e di quella statale sia stata spesso privilegiata e vincente. La connivenza omertosa e la cointeressenza coi gruppi criminali di ampi segmenti della classe di governo e dirigente – la cosiddetta borghesia mafiosa – hanno consentito per decenni alle micro-entità mafiose di esercitare una sorta di sovranità surrogata negli sfortunati territori dove si estende il loro dominio, con una miriade di organizzazioni dai tratti politici ferocemente autoritari, fondate sull’esercizio di un‘autorità arbitraria, predatoria e violenta da parte dei capiclan.
I quali naturalmente – come accade nei regimi autoritari, specie quelli di matrice fascista – per legittimarsi agli occhi del loro popolo, tanto impaurito e assoggettato quanto bisognoso di protezione, si sono ammantati delle vesti di paladini di valori tradizionali, con un grezzo armamentario ideologico che accosta alla rinfusa famiglia, onore, simbologia religiosa, omertà.
I mafiosi irriducibili in carcere mantengono saldo un vincolo di appartenenza e di sudditanza nei confronti di organizzazioni criminali che incarnano un potere cruento, oppressivo, intimidatorio, un potere che uccide, tortura, nega e cancella diritti umani. Anche ad essi andrebbe dunque applicato quello che il filosofo liberale Karl Popper definì paradosso della tolleranza.
Una comunità che faccia propri i valori di civiltà, tolleranza, riconoscimento universalistico di diritti civili rischia di essere travolta dalle frange di violenti e intolleranti che piegando alle loro finalità di dominio l’esercizio di quelle libertà – da essi negate ad altri – possono prosperare e imporsi. Per questo una società aperta, se vuole affermare davvero i valori dell’inclusione e della tolleranza, dovrà dimostrare il coraggio di negarne selettivamente l’applicazione. Non si può essere tolleranti con gli intolleranti.
Questo principio vale a maggior ragione nei confronti dei rappresentanti criminali delle mafie. Un paese democratico che voglia preservare le proprie istituzioni e libertà individuali può e deve mostrarsi capace di limitare legalmente il ricorso a quei diritti e garanzie ai soggetti criminali, che possono utilizzarli in modo strumentale per accrescere materialmente e simbolicamente il potere invisibile e corruttivo delle mafie sulla vita politica e sociale.