Dall’inizio di ottobre, le piazze irachene si sono riempite di centinaia di migliaia di persone, scese in strada prima per protestare contro carovita e corruzione imperante nel Paese, ma che presto hanno iniziato a chiedere le dimissioni del primo ministro, Adil Abdul-Mahdi, del suo governo e la cancellazione di tutti i partiti filo-iraniani che lo controllano. Nelle strade di Baghdad, Karbala, Bassora e altre città irachene, agli striscioni antigovernativi si sono presto affiancate le immagini in fiamme della Guida Suprema iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, e del generale Qasem Soleimani, capo delle Forze Quds, l’unità delle Guardie Rivoluzionarie operativa fuori dai confini iraniani. Ai dimostranti hanno risposto i militari di Baghdad, supportati anche dalle milizie di Teheran, che da settimane ormai hanno l’ordine di sparare sulla folla: oltre 270 morti e migliaia di feriti il bilancio provvisorio.
Metafora della netta separazione tra il popolo sceso in piazza per chiedere di “riavere indietro il proprio Paese” e l’establishment politico è la Green Zone di Baghdad, oggi sede delle ambasciate straniere e delle istituzioni, dove gli esponenti dell’esecutivo rimangono asserragliati evitando il contatto con il resto dei cittadini. Un’ultima roccaforte del potere violata a inizio ottobre con alcune esplosioni che hanno fatto aumentare le misure di sicurezza.
In piazza, intanto, oltre a protestare si continua a morire. Martedì le ultime tre vittime nella città meridionale di Umm Qasr, dove le forze di sicurezza stanno cercando di riaprire un porto chiave bloccato da tre giorni dai manifestanti antigovernativi. Altri cinque dimostranti sono morti lunedì a Baghdad, mentre in quattro hanno perso la vita domenica nella città santa sciita di Karbala, quando la polizia ha aperto il fuoco contro la folla che tentava di assaltare il consolato iraniano.
Proprio l’attacco all’edificio diplomatico della Repubblica Islamica è il simbolo della trasformazione delle proteste, dalle quali si leva sempre più chiaro il coro “Iraq libero, fuori l’Iran”. I manifestanti che hanno condotto l’offensiva al consolato hanno ammainato la bandiera iraniana, issando al suo posto quella irachena, dopo aver lanciato pietre contro la sede diplomatica e bruciato copertoni nelle strade adiacenti. Dopo il ritiro americano dal Paese, nel 2011, le forze che fanno capo a Teheran hanno sempre più preso campo all’interno delle istituzioni, fino allo scoppio della guerra civile del 2014 che ha poi portato alla creazione del Califfato dello Stato Islamico. Anche in quel caso, ex militari baathisti, sostenuti dalla minoranza sunnita che si sentiva, appunto, soggiogata dai governanti, espressione della maggioranza sciita e filo-iraniana, si sono ribellati al governo allora guidato da Nūrī al-Mālikī.
Le ostilità hanno dato l’opportunità alle milizie guidate da Soleimani di intervenire sul campo, sia in Siria che in Iraq, aumentando la propria influenza sul campo militare, ma anche politico, tanto che sarebbe stato proprio il generale degli ayatollah a fare da mediatore tra i partiti sostenuti da Teheran e le altre formazioni politiche di maggioranza per arrivare alla formazione del governo Mahdi, nell’ottobre 2018. Milizie iraniane, secondo alcune ricostruzioni, stanno prendendo parte anche alla repressione nei confronti delle manifestazioni.
Una situazione che, col passare del tempo e l’aumentare delle difficoltà economiche e sociali tra la popolazione, ha portato le piazze a chiedere la “liberazione” dal controllo iraniano sull’esecutivo. Anche da parte di alcune frange della comunità e del clero sciita nel Paese. Ad esempio, nei giorni scorsi il carismatico ayatollah sciita iracheno, Ali Sistani, ha rinnovato il suo sostegno alle proteste popolari non violente e ha invitato i partiti politici e le forze regionali straniere a non cercare di cavalcare per fini particolari la mobilitazione in corso. In un comunicato diffuso dal suo ufficio a Karbala, ha affermato: “Nessun individuo, gruppo o entità regionale o internazionale, con un’agenda particolare, può scippare la volontà degli iracheni e imporre loro un parere”.
Diversa la posizione iraniana. Khamenei ha definito le rivolte popolari in corso in Libano e Iraq come parte di un complotto israeliano e americano. Ma Sistani non riconosce l’autorità politico-religiosa di Khamenei e ha “ribadito la posizione ben nota di condanna nei confronti di ogni aggressione ai manifestanti pacifici e di condanna di ogni tipo di violenza ingiustificata. È necessario rendere conto di questi atti (di violenza)”, si legge nel comunicato.
Una situazione, questa, che aveva portato il presidente della Repubblica, Barham Salih, a chiedere, nel corso di un discorso alla Nazione, l’approvazione di una nuova legge elettorale per eventuali prossime elezioni politiche anticipate. Dal canto suo, anche Mahdi si era detto pronto a dimettersi in caso di mancanza di fiducia da parte dei leader dei blocchi parlamentari di maggioranza, ma a condizione che si eviti un “vuoto istituzionale”, come specificato dal presidente. Opzione però naufragata, al momento, anche a causa delle pressioni provenienti da Teheran.