Storie della farfalla, di William T. Vollmann (traduzione di Cristiana Mennella; Minimum Fax), è un romanzo brutale, scomodo, onesto e coraggioso nel descrivere le patologiche e patetiche perversioni maschili nel protagonista, un narratore interno che batte, in violenza verbale e caratterizzazione psicologica, il Michael di Piattaforma di Michel Houellebecq.
Siamo all’inizio degli anni Novanta, al termine della guerra cambogiano-vietnamita. Un giornalista e un fotografo americani partono per un servizio in Cambogia per documentare il Paese asiatico devastato dalle follie dei Khmer Rossi. Sono stipendiati da una rivista, ma il loro obiettivo è, in realtà, di immergersi nel mondo del turismo sessuale. Prima a Bangkok poi a Phnom Penh i due si lasciano andare a un infinito mercanteggiare per possedere, per qualche ora, giovani prostitute, spesso improvvisate, immergendosi sempre più in un viaggio allucinato e penoso, senza ritorno.
Il giornalista, vero protagonista delle vicende, crede di innamorarsi di una ragazza cambogiana, sentimento che lo porterà a sfasciare il proprio matrimonio, negli Stati Uniti, e a intraprendere sentieri assurdi pur di poter tornare in Asia per dichiararle definitivamente il suo amore. Una sorta di educazione sentimentale post-coloniale, capace di svelare lo squallido e laido meccanismo che muove i desideri di moltissimi maschi occidentali.
Nel romanzo la gioia dell’amplesso si trasforma, ben presto, in un incubo da cui è impossibile svegliarsi, una deprivazione sensoriale e un imputridimento fisico che montano con il susseguirsi delle trattative per avere corpi acerbi, in stanze ammuffite, tra febbri tropicali, caldo umido, stanchezza atavica e un amore privo di senso. Un libro violento, disperato e bellissimo, che straccia la possibilità della redenzione e trasforma in manifesto squallore i sentimenti umani più basici e universali.
Pyongyang Blues, di Carla Vitantonio (Add Editore). In una specie di Monopoli sulle strade del socialismo reale, l’autrice molisana racconta in 17 lanci di dadi la sua esperienza di quattro anni in Corea del Nord. Ne viene fuori un’immagine inedita e originale, dove emergono elementi del quotidiano di un Paese perlopiù sconosciuto in Occidente. Un quotidiano molto distante da quello che spesso emerge dagli articoli sensazionalistici, farciti di minacce nucleari e facile ironia sull’esteriorità della Repubblica Popolare di Corea. Un’esistenza che è politica, sempre, per ogni cittadino.
Pillole di architettura brutalista, immagini da un’università lontana anni luce da qualsiasi altra università, tratteggi di strade, persone, palazzi, sensazioni, cibo, disagi che diventano non disagi, manifestazioni di massa, il tutto miscelato sapientemente, riuscendo a creare un libro bello, intenso e coraggioso in quello che afferma. La forza di Pyongyang Blues è quella di non dare corda a nessun tipo di pregiudizio nei confronti di una realtà così distante dalla nostra, e di aprire una finestra limpida e al contempo ruvida su ciò che molto spesso vogliono renderci inaccessibile.
Otogizōshi: le fiabe giapponesi di Dazai Osamu, di Dazai Osamu (traduzione e postfazione di Massimo Soumaré; Atmosphere Libri), è una raccolta di quattro storie tradizionali che una delle penne più originali e scomode della letteratura giapponese contemporanea trasforma in messaggi sovversivi e esilaranti adatti a un pubblico adulto, elaborando personaggi e vicende senza dare un giudizio morale nella parte finale della narrazione. All’interno delle fiabe interviene lo stesso scrittore, inserendo commenti e riflessioni che dicono moltissimo sul suo processo creativo.
In Urashima Tarō la tartaruga che conduce il pescatore – che la salva in fondo al mare in segno di gratitudine – diventa un personaggio articolato e complesso, ne Il monte Click-clack il coniglio della tradizione diventa una ragazza vergine e il tanuki può essere letto come un assatanato uomo di mezza età che tenta di possederla. Il passero dalla lingua tagliata diventa un racconto sull’adulterio, mondi bizzarri e figure sovrannaturali si mischiano a citazioni prese dalla cultura americana, ai miti greci e alla tradizione cinese.
Scritte nell’ultimo periodo della Seconda guerra mondiale, le fiabe risentono del clima di terrore, angoscia e paura vissuto dalla popolazione giapponese: il libro stesso si apre con la descrizione del narratore rintanato in un rifugio per ripararsi da un bombardamento aereo americano.
Un’altra vita per le donne & Tre lanterne, di Su Tong (traduzione e postfazione di Antonio Leggieri; Atmosphere Libri) sono due racconti di uno dei più grandi scrittori cinesi contemporanei, che ha ispirato il celebre regista Zhang Yimou per il suo lungometraggio Lanterne rosse. Apparsi in Cina all’inizio degli anni Novanta, richiamano a un tempo senza tempo, un po’ come fatto dagli autori sudamericani del realismo magico, svincolando Su Tong da messaggi dichiaratamente politici. Il linguaggio distaccato, a tratti volontariamente infantile, permette inoltre allo scrittore di descrivere scene forti e cruente senza creare un senso di violento straniamento al lettore.
Atmosfere di solitudine, nichilismo e trascuratezza, personaggi sopraffatti dall’abulia, vittime di decadenza e desolazione ambientale e psicologica, una guerra invisibile che avanza minacciosa e una tensione accumulata che viene cancellata attraverso trovate a tratti comiche e grottesche, lo scemo del villaggio che diventa il personaggio più puro e sensibile del villaggio, circondato amorevolmente dalle sue anatre.
Il mondo inventato da Su Tong, pulito e al contempo avanguardistico, gioca mirabilmente con scenari “storici” mutandoli in un caleidoscopio verosimile di sensazioni che trasudano umanità.