Il magistrato chiede alla Cassazione di esprimersi sulla vicenda considerando la sentenza di assoluzione emessa in appello: "Contraddittoria, illogica e carente" e la motivazione "volutamente sintetica e fatalmente incompleta"
Si lanciò dal tetto di una scuola a Forlì, il 17 giugno 2014. Aveva 16 anni e lasciò un video in cui accusava i suoi genitori di tormentarla. Il padre e la madre sono stati condannati in primo grado e successivamente assolti in appello dall’accusa di isitigazione al suicidio e maltrattamenti. Ma contro quel verdetto insorge il sostituto procuratore generale di Bologna Valter Giovannini che chiede alla Cassazione di pronunciarsi. “Da una oggettiva analisi di questa spaventosa vicenda si evince una volontà precisa di annientamento, da parte degli imputati, delle istanze provenienti dalla figlia, con continua svalutazione della sua personalità, delle sue naturali istanze di sedicenne, del mancato volontario riconoscimento della eccezionale brillantezza del suo intelletto” scrive il magistrato nel ricorso agli ermellini.
La sentenza di appello, che non ha ravvisato responsabilità penali, è, per il pg, contraddittoria, illogica e carente, e la motivazione “volutamente sintetica e fatalmente incompleta”, anche perché non avrebbe dovutamente considerato le testimonianze delle amiche della ragazza, “selezionate e segmentate” così da non restituire una valutazione di insieme. Né avrebbe dato il corretto significato alle lettere e al video girato dalla giovane poco prima di togliersi la vita, “una sorta di denuncia lasciata da Rosita ai genitori, ma anche alle forze dell’ordine e agli inquirenti, nella quale appare chiaro lo stato di prostrazione della minore“.
Per i giudici della Corte di assise di appello di Bologna invece Roberto Raffoni e Rosita Cenni non maltrattarono la figlia. “Dalla lettura complessiva dei dati di fatto raccolti non può affermarsi che gli imputati abbiano sottoposto la figlia a un regime di vita sistematicamente vessatorio, lesivo della sua libertà e della sua personalità, tale da porla in uno stato di isolamento, soggezione, deprivazione affettiva e impedendole di vivere in modo naturale e sereno la propria adolescenza”. E per questo non hanno riconosciuto la loro responsabilità.
Se i giudici di primo grado avevano parlato di “svalutazione della personalità” e condotte “improntate a castrazione e repressione“, opposta è la lettura dei magistrati del processo d’appello anche sul ruolo delle lettere e del video in cui Rosita, prima di uccidersi, accusava i genitori. Proprio perché l’abuso psicologico “risulta particolarmente sfuggente – secondo i giudici di appello – è necessario individuare fatti concreti che ne costituiscano quanto meno la spia, onde evitare che si tragga la prova dei maltrattamenti unicamente dalle parole di un’adolescente così sofferente da arrivare a togliersi la vita a 16 anni, per di più in maniera così plateale gettandosi dal tetto della scuola”.