A rileggere le dichiarazioni rilasciate nel 2018 ad Affari&Finanza da Lucia Morselli, ora alla guida dell'ex Ilva e allora a capo della cordata perdente, c'è da chiedersi come oggi possa guidare l'acciaieria per conto del colosso con sede in Lussemburgo. Il lungo colloquio sulla gara e sul futuro di Taranto era un duro atto d'accusa alla gestione del bando da parte dei commissari straordinari e una violenta critica ai piani degli acquirenti
Lucia Morselli aveva capito tutto molto tempo fa. Lo scorso anno profetizzò che Taranto, per ArcelorMittal, sarebbe stata “una delle tante filiali di un impero che ha il suo centro altrove”. Insomma, sacrificabile all’occasione come sta avvenendo 16 mesi dopo. Chissà cosa ne pensa ora la manager 63enne dei piani del colosso dell’acciaio con sede in Lussemburgo. Perché quelle frasi le pronunciò quando era al vertice di Acciaitalia, la cordata perdente nella gara per l’Ilva, e oggi è stata chiamata proprio da ArcelorMittal a gestire la liquidazione dell’acciaieria se lo Stato non accetterà di reintrodurre lo scudo penale, di accollarsi la gestione di 5mila esuberi e di trovare una soluzione per l’altoforno 2 nel mirino della magistratura.
A rileggere le sue dichiarazioni nell’unica intervista rilasciata su Ilva ad Affari&Finanza il 18 giugno 2018 c’è da chiedersi come oggi Morselli possa guidare ArcelorMittal. Il lungo colloquio sulla gara e sul futuro di Taranto era un duro atto d’accusa alla gestione del bando da parte dei commissari straordinari e una violenta critica ai piani degli acquirenti. Con diverse grandi verità, soprattutto alla luce di quanto è avvenuto da allora fino ad oggi. Morselli spiegava così l’importanza per l’Italia di Ilva, che ora proprio vuole rimpicciolire o restituire allo Stato: “L’Italia è un Paese di artigiani, dalla moda alla meccanica”. E la meccanica “dalla più sofisticata al più banale dei bulloni, è fatta di acciaio”.
Il nostro Paese, ricordava Morselli, ha “storicamente soddisfatto il proprio fabbisogno interno ed esportato acciaio”. E avvertiva sui rischi per il mercato di un eventuale default del siderurgico di Taranto, attraverso un episodio del 2014, quando guidava l’Ast di Terni: “Mi trovavo a Bruxelles per l’introduzione dei dazi a protezione della siderurgia europea e leggendo le statistiche insieme con gli altri acciaieri – raccontava ad Affari&Finanza – vedemmo che in Italia e in Europa si erano impennate le importazioni. Preoccupati ci dicemmo che era colpa della crisi dell’Ilva. Un unico impianto stava creando un problema a tutta la Ue”.
Quindi spiegava che l’impianto di Taranto “deve essere il pivot di un grande traffico commerciale, che si estenda oltre la siderurgia” e ricordava che Acciaitalia, la sua cordata dell’epoca, aveva messo in campo un piano per un “serio processo di decarbonizzazione”, che invece ArcelorMittal ha sempre bollato come fantasioso. Ed era entrata nello scivoloso terreno della parte finale della gara, quando una parte di Acciaitalia (Jindal e Delfin, non la ‘sua’ Cassa Depositi e Prestiti) aveva tentato un rilancio sul prezzo che avrebbe sostanzialmente pareggiato l’offerta economica di ArcelorMittal. “Come mai hanno vinto loro? Secondo gli articoli di alcuni giornali – spiegò riferendosi ai documenti svelati da Il Fatto Quotidiano – la valutazione tecnica di comparazione dei rispettivi piani industriali e ambientali era che il piano di Mittal risultava ‘incoerente su investimenti e volumi di produzione oltre che sull’occupazione'”. Però offrirono più soldi che in extremis la sua cordata cercò di pareggiare.
“Abbiamo chiesto subito di poter migliorare la nostra offerta economica, naturalmente lasciando anche alla cordata di Mittal possibilità di migliorare” la propria. Ma, sottolineò, “non ci hanno dato la possibilità di farlo” anche se “in un’audizione alla Commissione Attività produttive del Senato, a febbraio 2016, era stata confermata la possibilità di ‘una fase di rilanci'”. Quindi l’affondo: “Noi non abbiamo chiesto di cambiare le regole, solo di applicarle. Ricordiamoci – aggiunse – che l’interesse nazionale è la regola prevalente dell’Amministrazione Straordinaria”.
Morselli spiegò anche che l’attesa per il giudizio dell’Antitrust europeo, già noto in fase di gara e doveroso solo in caso di acquisizione da parte di ArcelorMittal, e la lunga trattativa con i sindacati avevano di fatto “bruciato” il sovrapprezzo perché nel frattempo l’acciaieria era rimasta in mano ai commissari con le sue relative perdite mese dopo mese. Tutto sarebbe stato più semplice se a vincere fosse stata Acciaitalia: il capocordata “Jindal piaceva ai sindacati perché avrebbe fatto di Ilva il suo unico centro di sviluppo in Europa, non una delle tante filiali di un impero che ha il suo centro altrove”. L’Italia a Taranto “aveva la più grande e la più moderna acciaieria d’Europa, e abbiamo lasciato che molti – forse i più avanzati – dei suoi forni si spegnessero”, concluse Morselli. ArcelorMittal aveva assicurato che avrebbe rimesso tutto in sesto. Adesso toccherà proprio a lei dare l’ordine di portarli al minimo o forse girare l’ultima valvola.