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Elezioni Spagna: la destra recupera, la sinistra è rassegnata. E la situazione rischia di diventare ingestibile

La Spagna si accinge a votare. Potrebbe essere una constatazione scontata, dettata dalla naturale fisiologia democratica. Ma così non è, posto che è la quarta volta che i cittadini del paese iberico sono chiamati alle urne in appena quattro anni. Qualcosa di quella fisiologia si è inceppato, gli equilibri sono saltati, la scansione elettorale è impazzita e la parola più inflazionata nelle frequenze radiofoniche e televisive è bloqueo, ossia blocco, impasse, palude istituzionale. Le forze politiche non sono state in grado di mettersi d’accordo nella legislatura uscente per formare un governo e al momento nulla lascia presagire che riusciranno a farlo in quella che inizierà da qui a breve.

Da quando il regime democratico sorto dalla transizione del 1978 è stato scosso dall’irruzione di nuovi partiti con proiezione nazionale e dal procés indipendentista catalano, nulla è più come prima. Le due forze che di quel sistema sono state il perno, il partito popolare e quello socialista, hanno riguadagnato complessivamente qualche punticino alle scorse elezioni, ma non dirigono più l’orchestra con l’autorevolezza di un tempo. Eppure i socialisti non si rassegnano ad essere una maggioranza relativa. Hanno sì scansato la prospettiva di un sorpasso degli enfant prodige di Podemos, ma i rapporti di forza sono mutati. La cultura politica maturata tra gli anni 80 e 2000 è dura a morire. L’esecutivo di coalizione che rispecchi i rapporti di forza parlamentari non piace, si preferisce ancora il modello monocolore con aiutini a destra e a manca in cambio di qualche mancetta.

Il leader socialista Pedro Sánchez non vuole essere da meno rispetto ai suoi predecessori Felipe Gónzalez e José Luis Rodríguez Zapatero che godettero di un mandato pieno, rifiuta di accettare che le cose stiano diversamente. I manifesti lo ritraggono in primo piano, sorridente, quasi ammiccante. Il suo volto da 40enne belloccio vuole trasmettere fiducia. Sul lato sinistro della foto, una scritta rossa recita perentoria Ahora sí. Ma sarà davvero la volta buona? E perché questa volta sì e quella scorsa no? I sondaggi danno il suo partito ancora in testa, ma in flessione.

Approccio un socialista di lunga data. Gli domando se non pensa che il suo leader avrebbe potuto cedere qualche mese fa durante la fase negoziale, le richieste di Podemos erano legittime e tutt’altro che esose visto il suo peso parlamentare. Joder, macho, esordisce con spontaneità. Il primo istinto è quello di dirmi di sì, con poche parole mi fa capire che il governo si doveva fare, si tradisce, poi assume le difese del partito e il tono si fa più istituzionale, la colpa non è solo di Pedro. Forse è vero, eppure è difficile dire che la (ir)responsabilità si ripartisca equamente.

L’effetto è stato quello di demoralizzare le truppe. È il clima che si vive a sinistra in questa campagna elettorale. Apatia e rassegnazione, questi i sentimenti prevalenti che rischiano di mandare a carte quarantotto una maggioranza che avrebbe potuto dar vita a un governo certo non particolarmente progressista, ma almeno in grado di migliorare la legge di bilancio del partito popolare, in vigore da tre anni per via dell’esercizio provvisorio, e avviare la risoluzione del conflitto catalano.

Nel frattempo, la destra recupera terreno. Il partito popolare tornerà a ridosso dei 100 deputati dopo la scorsa debacle, ma è l’avanzata di Vox, il partito nostalgico del franchismo, a seminare il panico. I comizi del suo leader, Santiago Abascal, fanno sistematicamente il pieno. I sondaggi lo danno come quarto partito e addirittura terzo in parlamento per via di un sistema elettorale perverso che premia la Spagna vaciada, cioè i territori rurali – scarsamente popolati, culla di quella cultura nazional-cattolica di impronta reazionaria e di quell’elettorato, tutt’altro che residuale, ribattezzato “franchismo sociologico”. Con Vox viene ormai del tutto meno l’eccezionalità europea del partito popolare, un partito che fino a pochi anni fa disegnava un arco che andava dai liberali centristi alla destra più arretrata.

La destra ha capitalizzato il tema catalano. È una questione complessa che andrebbe affrontata eludendo le facilonerie. Elettoralmente prevalgono le passioni più irragionevoli, le isterie contrapposte. Così, l’unità di Spagna viene invocata da Vox attraverso schiamazzi e una rojigualda (la bandiera spagnola) da Guinness dei primati, mentre a Barcellona e dintorni la possibilità di un sabato pre-elettorale caratterizzato da disturbi di piazza rimane alta.

Qualche giorno fa Gabriel Rufián, uno dei volti più noti della sinistra repubblicana catalana, ha postato sulle reti sociali una foto di spalle di due bambini, rispettivamente di 7 e 4 anni, in attesa di un treno che da Barcellona li portasse a Madrid. Erano i figli di Oriol Junqueras, il leader del suo partito. Erano in procinto di visitare il padre, rinchiuso in una cella a oltre 600 km da casa. È la vergogna di un paese occidentale che commina pene esorbitanti a leader politici che avranno pur fatto il passo più lungo della gamba, ma che non meritano di essere trattati alla stregua di criminali.

Il partito socialista sarà di fronte a un bivio fra qualche giorno. La sinistra repubblicana catalana rimane sulla carta un partito indipendentista, ma ha smorzato di molto la propria posizione. Era disposto a votare la fiducia a Sánchez nella legislatura in via di chiusura, probabilmente lo sarà in quella a venire. Il suo peso relativo è destinato ad essere ancora più determinante. Se i sondaggi sono solidi, il leader socialista potrà solamente governare in una coalizione variopinta e instabile.

Ciò imporrà ragionevolezza rispetto alla Catalogna, con una riforma in senso federale dello Stato spagnolo e un’amnistia. O preferirà chiedere l’astensione dei popolari, che negli ultimi giorni hanno accolta la proposta di Vox di mettere fuori legge i partiti regionalisti? O chissà ancora che queste giornate autunnali non siano altro che l’anticamera di una terza e fatidica tornata elettorale da qui a pochi mesi.

Si avverte la disavventura paradossale e tragica di questa ripetizione elettorale? Innescata da Sánchez per risolvere l’impasse, rischia soltanto di renderla ancora più grave e ingestibile.