Davanti al Muro di Berlino, Sandro Pertini salì col borgomastro Dietrich Stobbe su una torretta d’osservazione, dove qualcuno gli porse un binocolo. Il presidente italiano lo afferrò e regolò l’ottica sino a quando, con un mugugno, mise a fuoco quello che voleva vedere: dall’altra parte del Muro, infatti, spuntava la torretta di controllo del settore Est, dove un paio di “vopos” (i poliziotti dell’Est) stavano facendo altrettanto: “Vedete? Mi hanno appena spiato!”, esclamò Pertini, scuotendo la testa, e borbottando “non c’è libertà quando ci sono i muri”. Aggrottò la fronte, sistemò gli occhiali ed assunse l’espressione che avevo già avuto modo di vedere in altre occasioni, quando riteneva d’essere testimone di un’ingiustizia.
Era il 20 settembre del 1979, una bella giornata “insolitamente tiepida per Berlino”, mi confidò Enzo Piergianni, un collega italiano che viveva a Colonia e lavorava alla redazione delle trasmissioni in italiano della Wdr, la Westdeutscher Rundfunk, allora la radio più ascoltata della Germania Occidentale, “l’estate sta finendo e il sole onora Pertini…”, il capo di uno Stato che per moltissimi tedeschi voleva dire il Paese delle vacanze e del caldo. Il nostro presidente mantenne l’aria grave e corrucciata, e per una volta decise di comunicare il suo stato d’animo col silenzio.
Fui io a chiedergli se intendeva commentare ciò che aveva visto, proprio perché ero riuscito a captare quel sussurro di sgomento e rabbia. Lui mi fissò negli occhi e rispose: “Ho visto quello che hai visto, quello che avete visto voi tutti. Potete immaginare quale sia il mio stato d’animo. Non chiedetemi altro”. Col senno di poi, fu un abile smarcamento: la sua profonda indignazione avrebbe provocato un incidente diplomatico e il Quirinale, prudentemente, volle evitarlo.
Del resto, Pertini aveva già espresso il suo pensiero nel discorso del giorno prima in occasione del brindisi col presidente della Repubblica Federale tedesca, Karl Carstens: “I progressi delle tecnologie e delle comunicazioni rimpiccioliscono gli spazi che in altri tempi sembravano vasti. Le frontiere perdono il significato che avevano. E’ l’ora delle grandi comunità internazionali. L’Europa unita deve essere una di queste…”, ed era chiaro l’indiretto riferimento al Muro che divideva in due la Germania, “l’Europa unita può svolgere opera di mediazione in difesa della pace (…) se è vero che l’Europa è stata la culla della ragione, prevalga la ragione e si arrivi nella sicurezza al disarmo totale e controllato. La fame e la miseria potranno validamente essere combattute. Si svuotino gli arsenali di guerra, sorgenti di morte; si colmino i granai, sorgenti di vita. Utopie, queste? Quante utopie sono diventate realtà…”.
Ecco, ho ripensato a queste parole che Pertini pronunciò, dieci anni prima del crollo di una barriera simbolica, atrocemente simbolica, che spaccava in due l’Europa e la libertà. Qualsiasi cosa si dica e si scriva oggi, quel Muro era la rappresentazione fisica, tangibile, più che mai minacciosa, della morte di ogni diritto, della democrazia: una frontiera infrangibile tra l’est e l’ovest, il simbolo della Guerra Fredda.
Trent’anni fa fummo felici ed euforici per quello che cominciava a succedere a Berlino, con le dirette tv che ci mostravano la folla esuberante, in festa, i giovani che cantavano, suonavano, che smantellavano pezzi di quel recinto di cemento alto quattro metri, lungo 155 chilometri, e in quelle ore nessuno era così tanto presuntuoso da ipotizzare il futuro, il destino e l’evoluzione della democrazia, la ricollocazione delle Grandi Potenze, l’afflosciamento dell’Unione Sovietica, l’irruzione della Cina comunista nell’impero del capitalismo più sfrenato… no, solo dopo qualche giorno cominciammo a giudicare, ad analizzare, a dirci che il liberalismo politico ed economico aveva alla fine vinto la sfida col comunismo, e che sarebbe diventato l’esempio da seguire per chi invece aveva creduto nel primato del socialismo.
Oggi la democrazia liberale non ci sembra più il modello legittimo, ma uno dei modelli non sempre virtuosi: anzi, la sua evoluzione ha creato sempre più grosse disuguaglianze e una classe politica sovente imbelle, incapace, incompetente (lo sappiamo bene noialtri italiani). Ormai esiste uno spazio antiliberale parallelo, come suggerisce Michel Duclos, ex ambasciatore francese che ha appena scritto il saggio Le Monde des nouveaux autoritaires (esce in Francia il 13 novembre per i tipi dell’Institut Montaigne et éditions de l’Observatoire), che riunisce parecchi governanti populisti e nazionalisti schierati contro le democrazie tradizionali, e che ha in Donald Trump la figura più importante, sorta di comandante in capo che guida l’ondata populista e ne cauziona l’autoritarismo.
Confesso, dunque, che quel 9 novembre di 30 anni fa nessuno era preparato allo scombussolamento storico che si sarebbe scatenato in seguito all’improvviso smantellamento – in realtà, per distruggere il Muro ci sarebbero voluti mesi – di una frontiera non soltanto fisica ma soprattutto ideologica, democrazia versus regime, libertà contro dittatura.
Persino lo stesso Mikhail Gorbaciov, solo due mesi prima, era stato ambiguo nell’incontro con l’ex cancelliere tedesco Willy Brandt, ricevuto al Cremlino, che gli chiedeva: “Secondo lei, signor Segretario, i tedeschi potranno un giorno tornare a vivere sotto lo stesso tetto?” (ce lo raccontava spesso e volentieri l’ex consigliere di Gorbaciov, Andrei Gratchev, a noi corrispondenti stranieri che lavoravano a Mosca).
Quel giorno di settembre del 1989, Gorbaciov fu abile a destreggiarsi, giacché una risposta precisa, in un verso o nell’altro, avrebbe innescato pericolose reazioni, e quelle che più temeva erano all’interno dell’Urss: “Il Muro non è sempre esistito, dunque nulla dice che sarà eterno. Lasciamo la risposta alla Storia”.