“Ci trasferivano. Tre giorni e tre notti a piedi, fino alla stazione. A volte dovevamo camminare sopra i morti perché non c’era altro spazio. La neve era diventata più rossa che bianca perché i tedeschi sparavano a chi restava indietro. In alcuni paesi abbiamo trovato dei magazzini aperti e abbiamo potuto mangiare carote, rape. Poi c’erano gli alberi e riempivamo le tasche di foglie per riscaldarci. A Dora eravamo rimasti in pochi e si mangiava la neve“.
Alberto Sed, morto il 2 novembre a 91 anni. Sopravvissuto al campo di sterminio di Auschwitz. La madre e una sorella sono state uccise nelle camere a gas. Una seconda sorella, Fatina, sopravvissuta, è stata sottoposta agli esperimenti del dottor Joseph Mengele. Nel lager, a 15 anni, dovrà compiere varie mansioni come sistemare i bambini che arrivavano al campo sui carretti che li avrebbero portati al crematorio.
“Appena arrivati nel campo di Auschwitz, ci hanno divisi, uomini e donne. Mi stavo unendo al mio gruppo, ma mia mamma mi ha tirato per la giacca. ‘Nedo, Nedo, dove vai? Aspetta. Abbracciami forte, perché non ci vedremo mai più’. Io l’ho stretta fortissimo, le ho baciato il volto. Era come se fosse stata sotto la pioggia, era coperta di lacrime. Lei aveva capito già tutto”.
Nedo Fiano, 94 anni. Sopravvissuto al campo di sterminio di Auschwitz. Nel lager è stata eliminata tutta la sua famiglia, 11 persone. Al suo ritorno aveva solo i cugini, unici sopravvissuti. Si sposa con Rina Lattes, sua compagna nella scuola ebraica che frequentavano dopo le leggi razziali. Dagli inizi degli anni Settanta è testimone in tutta Italia della Shoah. Ha raccolto i ricordi della sua famiglia e della sua esperienza in A 5405, il coraggio di vivere, del 2003. Il numero è quello tatuato sul corpo ad Auschwitz.
“Appena arrivati ci vollero dividere: ci fu una reazione da parte nostra, e i tedeschi ci fecero capire che le loro decisioni non si discutevano. Mi ricordo che papà ha cercato di difendere sua figlia il più possibile, ma lo hanno gonfiato di botte. Non cancellerò mai quella scena dai miei occhi, non dimenticherò mai lo sguardo di questo genitore, amareggiato e distrutto per non aver potuto difendere sua figlia”.
“In quelle persone non c’erano gesti umani. Un medico, un professionista, poteva decidere con il gesto di un dito, chi andava nelle camere a gas: ed era l’80% del totale. E tra questi c’erano molti bambini, bambini innocenti. Come fa una persona a mandare alla morte queste piccole creature: come può questo uomo, la sera, bere la sua birra e parlare come se nulla fosse successo?”
Sami Modiano, 89 anni. Sopravvissuto al campo di sterminio di Auschwitz. Nel lager sono stati uccisi suo padre e sua sorella. Grazie al caso (la necessità di manovalanza nelle cucine delle SS dopo l’arrivo di un carico di patate) e al coraggio del padre (che lo infilò nella fila dei prescelti per il lavoro togliendolo da quelli destinati a morte), è rimasto in vita. Quando i tedeschi iniziarono la ritirata e portarono i superstiti in marcia da Birkenau verso Auschwitz Modiano si accasciò a terra senza forze: fu sollevato da due sconosciuti compagni di sventura che lo portarono a destinazione lasciandolo su un cumulo di cadaveri per mimetizzarlo. Al suo risveglio vide una casa in lontananza e ci si trascinò. Lì trovo anche Piero Terracina, che durante la prigionia è diventato suo grande amico, e Primo Levi.
“Non ci fu gioia al momento della liberazione. Ricordo molto bene quel giorno. Era la tarda mattinata, aprii la porta della baracca per andare a prendere un po’ di neve in qualche parte del lager che non fosse troppo contaminata dai corpi che giacevano sul terreno, per ricavarne un po’ d’acqua da poter bere. Altra acqua non c’era. Vidi un soldato completamente ricoperto di bianco, era solo ed aveva un mitra. Si voltò verso di me e mi fece cenno con la mano di rientrare. Comunicai ai miei compagni che i soldati dell’esercito sovietico erano entrati nel campo ed eravamo liberi. Non ci fu nessuna reazione, solo silenzio. Solo dopo qualche ora vidi qualcuno che piangeva ed altri che pregavano. Nessuno poteva gioire sapendo che molti dei nostri congiunti non li avremmo più visti. Sapevo che non avrei più trovato i miei genitori, il nonno e lo zio che in una selezione era stato scelto per la morte nelle camere a gas. Speravo di poter ritrovare mia sorella, i miei fratelli o qualcuno di loro, speranza risultata vana”.
“Non vi voglio raccontare tutto l’inferno, tutti i dettagli, anche se i ricordi sono tanti. Io sono arrivato in estate, per avere acqua dovevamo succhiarla dal fango, sperando che non fosse contaminata dai cadaveri. E ricordo la notte in cui hanno cancellato il ‘campo degli zingari’: era vivace, una delle poche fonti di vita in quel luogo, una notte abbiamo sentito delle urla, al mattino dopo non c’era più nulla e c’erano i camini in funzione“.
Piero Terracina, 91 anni, sopravvissuto ad Auschwitz. Arrestato con tutta la famiglia su segnalazione di un delatore. Degli 8 componenti della sua famiglia solo lui farà ritorno a casa. Dagli anni Ottanta parla da testimone della Shoah in scuole, associazioni, università, conferenze, seminari, istituzioni militari, carceri, media.
“Era un inferno, ossia un passaggio nell’aldilà dopo atroci sofferenze. Immediatamente gli uomini vennero separati dalle donne e dai fanciulli, ordinarono loro subito di mettersi in fila ed in cammino e altrettanto fecero con noi che sfilavamo dinanzi a quelle canaglie. Alle mamme vennero subito strappati i bambini dalle braccia. Gettarono queste creature piangenti sul camion come fossero immondizia. Così, dopo tutta la selezione, rimanemmo 65 ragazze, tutte robuste. Ad un certo punto, prima di aspettare l’ordine per incamminarci di nuovo, un tedesco, per caso, vide che una delle ragazze teneva un grosso involto tra le braccia. Le fu intimato di far vedere che cosa c’era dentro e questa, tutta sconvolta e tremante, aprì uno scialle nero di lana e apparve una bella bambina di circa 6 mesi. La madre supplicò tanto il tedesco di non farle del male e chiese di andare dove sarebbe andata sua figlia per seguire lo stesso destino. Ma il tedesco con un grande sogghigno prese la povera creatura, le strappò i poveri stracci di dosso e poi, con grande sveltezza, la scosciò davanti agli occhi inorriditi della madre e di noi tutti. La povera donna non sopportando il grande dolore, cadde subito morta ai nostri piedi. Questa signora era livornese come me, si chiamava Berta Della Riccia. Fu arrestata assieme ai suoi familiari per essere condotta ad Auschwitz. Di tutta la famiglia non è rimasto alcun superstite, perché tutti furono uccisi nelle camere a gas”.
Frida Misul, morta nel 1992 a 73 anni. Sopravvissuta ad Auschwitz. Arrestata dalla polizia italiana ad Ardenza, trasferita nel campo di concentramento di Fossoli, viene brutalizzata durante gli interrogatori perché riveli il nascondiglio dei familiari e del cugino Umberto unitosi ai partigiani. Non cede ed è deportata ad Auschwitz. Prima sottoposta ai lavori forzati, poi ricoverata nell’ospedale del campo, viene salvata dalla sua voce di cantante: la domenica si esibisce per le SS. Dopo vari trasferimenti viene liberata dal lager di Theresienstadt. E’ suo uno dei primissimi memoriali di deportati ebrei: Fra gli artigli del mostro nazista viene pubblicato da Belforte nel 1946.
“Imparammo a non piangere più. Imparammo a non raccontare più: ‘La mia casa era così, la mia mamma era così, mia sorella era così’ perché anche l’altra aveva lo stesso dolore, anche l’altra aveva la stessa fame. Non avevo una spalla su cui piangere e non sono stata una spalla su cui piangere. Quelli che sono stati spalle su cui piangere sono diventati santi. Sono santi. Noi eravamo povere ragazze che parlavano solo di cibo. Il mangiare era diventato una fissazione: oggi non si può capire, oggi è difficile, quasi impossibile raccontare la fame alle nuove generazioni abituate ad aprire il frigorifero e a scegliere, abituate a buttare nella spazzatura alimenti scaduti perché non piaciuti abbastanza.
Noi avremmo mangiato qualunque cosa. E parlavamo solo di cibo. E inventavamo ricette succulente, e immaginavamo torte megagalattiche poste nel centro del piazzale dove c’erano invece le forche. Avevamo una fame terribile e diventavamo scheletro giorno dopo giorno.
All’alba venivamo svegliate da una bastonata, non avevamo orologio, non avevamo radio, non sapevamo mai che giorno fosse, che ora fosse. Venivamo inquadrate all’appello e poi portate al lavoro. Uscivamo dal campo e incontravamo sulla strada per Auschwitz, per andare in fabbrica, quasi tutti i giorni, ragazzi della Hitlerjugend: nostri coetanei, pasciuti che stavano a casa propria. Ci vedevano passare e, non contenti di essere carnefici e figli di carnefici, ci sputavano addosso e ci dicevano parolacce che avrei capito solo in seguito e che mi sarebbero sembrate assurde e ingiuste. Li odiavo allora, con tutte le mie forze, ed è stato liberatorio per me, nella mia età matura, diventata la donna di pace che sono, rielaborare quei ricordi, e avere pena di quegli adolescenti di allora e dei naziskin di oggi”.
Liliana Segre, 89 anni, sopravvissuta ad Auschwitz. Nel campo di sterminio ha perso diversi familiari, tra cui il padre. E’ cresciuta con gli zii e i genitori materni. Si è sposata con Alfredo Belli Paci, anche lui reduce dai lager nazisti per essersi rifiutato di aderire alla Repubblica di Salò, lo Stato fantoccio collaborazionista di Hitler. Decide di iniziare a raccontare dopo 45 anni, quando diventa nonna, dopo un lungo percorso di elaborazione e per la necessità di testimoniare. Da quasi trent’anni gira scuole, associazioni, librerie e congressi per raccontare la sua storia. Nominata senatrice a vita nel 2018 dal presidente della Repubblica nell’80esimo anniversario della promulgazione delle leggi razziali volute ed elaborate dal Duce del fascismo Benito Mussolini. Per effetto di numerose minacce a carattere antisemita, la prefettura di Milano ha disposto per lei una tutela personale.
Per due volte in una settimana Salvini – il supercapo, il vincente dei vincenti, il più forte pro tempore, il leader potente e per questo inconsapevole guida, esempio – si è paragonato a Liliana Segre. Ha smentito dopo quasi un giorno, con molto studio, di averle fatto visita: invece di chiederlo, invece di averlo già fatto, l’ha smentito. A chi chiedeva se fossero più gravi le minacce a lui o alla senatrice a vita ha risposto che aveva appena ricevuto un altro proiettile: “Ma non piango”. Dando per implicito l’indicibile, come spesso fa, in modo subdolo, poco coraggioso per un preteso capitano, il consueto giochetto pavido: alludere per solleticare qualche istinto senza però assumersi la responsabilità. Dice che – non si sa quando – la Segre la incontrerà: “Io ascolto ascolto, è una donna estremamente intelligente. Sono giovane, ho voglia di capire, di imparare e di ascoltare”. Ha 46 anni e non è chiaro cosa c’è ancora da capire su cosa ha imparato nella sua vita Liliana Segre, su cosa c’è da dire di più dopo essere uscita dal campo di sterminio di Auschwitz.
Nei suoi elenchi di parole a caso ripetuti come i giostrai (prendi la codina, sì sì sì) pronuncia molto spesso le parole dignità, onore, rispetto, con la consueta numerazione delle dita che accostano quei termini a una lista della spesa. E sempre a parole – e sempre buttate lì, vuote – parla della necessità di rispetto delle regole, ordine, disciplina, tradizioni, famiglia, educazione civica – quante volte la ripete l’educazione civica.
Ma continua a fingere di non capire che di fronte a storie come quella di Liliana Segre l’unica cosa da fare è tacere: è ritirarsi in un silenzio religioso, doloroso, rispettoso, deferente.
In tutta questa storia il comportamento di Salvini e di chi lo segue non riguarda la politica, non c’entra niente con la libertà di espressione, non c’entra con niente. E’ solo una questione di maleducazione.
Diego Pretini
Giornalista
Politica - 10 Novembre 2019
Che problema ha Salvini con la storia di Liliana Segre
“Ci trasferivano. Tre giorni e tre notti a piedi, fino alla stazione. A volte dovevamo camminare sopra i morti perché non c’era altro spazio. La neve era diventata più rossa che bianca perché i tedeschi sparavano a chi restava indietro. In alcuni paesi abbiamo trovato dei magazzini aperti e abbiamo potuto mangiare carote, rape. Poi c’erano gli alberi e riempivamo le tasche di foglie per riscaldarci. A Dora eravamo rimasti in pochi e si mangiava la neve“.
Alberto Sed, morto il 2 novembre a 91 anni. Sopravvissuto al campo di sterminio di Auschwitz. La madre e una sorella sono state uccise nelle camere a gas. Una seconda sorella, Fatina, sopravvissuta, è stata sottoposta agli esperimenti del dottor Joseph Mengele. Nel lager, a 15 anni, dovrà compiere varie mansioni come sistemare i bambini che arrivavano al campo sui carretti che li avrebbero portati al crematorio.
“Appena arrivati nel campo di Auschwitz, ci hanno divisi, uomini e donne. Mi stavo unendo al mio gruppo, ma mia mamma mi ha tirato per la giacca. ‘Nedo, Nedo, dove vai? Aspetta. Abbracciami forte, perché non ci vedremo mai più’. Io l’ho stretta fortissimo, le ho baciato il volto. Era come se fosse stata sotto la pioggia, era coperta di lacrime. Lei aveva capito già tutto”.
Nedo Fiano, 94 anni. Sopravvissuto al campo di sterminio di Auschwitz. Nel lager è stata eliminata tutta la sua famiglia, 11 persone. Al suo ritorno aveva solo i cugini, unici sopravvissuti. Si sposa con Rina Lattes, sua compagna nella scuola ebraica che frequentavano dopo le leggi razziali. Dagli inizi degli anni Settanta è testimone in tutta Italia della Shoah. Ha raccolto i ricordi della sua famiglia e della sua esperienza in A 5405, il coraggio di vivere, del 2003. Il numero è quello tatuato sul corpo ad Auschwitz.
“Appena arrivati ci vollero dividere: ci fu una reazione da parte nostra, e i tedeschi ci fecero capire che le loro decisioni non si discutevano. Mi ricordo che papà ha cercato di difendere sua figlia il più possibile, ma lo hanno gonfiato di botte. Non cancellerò mai quella scena dai miei occhi, non dimenticherò mai lo sguardo di questo genitore, amareggiato e distrutto per non aver potuto difendere sua figlia”.
“In quelle persone non c’erano gesti umani. Un medico, un professionista, poteva decidere con il gesto di un dito, chi andava nelle camere a gas: ed era l’80% del totale. E tra questi c’erano molti bambini, bambini innocenti. Come fa una persona a mandare alla morte queste piccole creature: come può questo uomo, la sera, bere la sua birra e parlare come se nulla fosse successo?”
Sami Modiano, 89 anni. Sopravvissuto al campo di sterminio di Auschwitz. Nel lager sono stati uccisi suo padre e sua sorella. Grazie al caso (la necessità di manovalanza nelle cucine delle SS dopo l’arrivo di un carico di patate) e al coraggio del padre (che lo infilò nella fila dei prescelti per il lavoro togliendolo da quelli destinati a morte), è rimasto in vita. Quando i tedeschi iniziarono la ritirata e portarono i superstiti in marcia da Birkenau verso Auschwitz Modiano si accasciò a terra senza forze: fu sollevato da due sconosciuti compagni di sventura che lo portarono a destinazione lasciandolo su un cumulo di cadaveri per mimetizzarlo. Al suo risveglio vide una casa in lontananza e ci si trascinò. Lì trovo anche Piero Terracina, che durante la prigionia è diventato suo grande amico, e Primo Levi.
“Non ci fu gioia al momento della liberazione. Ricordo molto bene quel giorno. Era la tarda mattinata, aprii la porta della baracca per andare a prendere un po’ di neve in qualche parte del lager che non fosse troppo contaminata dai corpi che giacevano sul terreno, per ricavarne un po’ d’acqua da poter bere. Altra acqua non c’era. Vidi un soldato completamente ricoperto di bianco, era solo ed aveva un mitra. Si voltò verso di me e mi fece cenno con la mano di rientrare. Comunicai ai miei compagni che i soldati dell’esercito sovietico erano entrati nel campo ed eravamo liberi. Non ci fu nessuna reazione, solo silenzio. Solo dopo qualche ora vidi qualcuno che piangeva ed altri che pregavano. Nessuno poteva gioire sapendo che molti dei nostri congiunti non li avremmo più visti. Sapevo che non avrei più trovato i miei genitori, il nonno e lo zio che in una selezione era stato scelto per la morte nelle camere a gas. Speravo di poter ritrovare mia sorella, i miei fratelli o qualcuno di loro, speranza risultata vana”.
“Non vi voglio raccontare tutto l’inferno, tutti i dettagli, anche se i ricordi sono tanti. Io sono arrivato in estate, per avere acqua dovevamo succhiarla dal fango, sperando che non fosse contaminata dai cadaveri. E ricordo la notte in cui hanno cancellato il ‘campo degli zingari’: era vivace, una delle poche fonti di vita in quel luogo, una notte abbiamo sentito delle urla, al mattino dopo non c’era più nulla e c’erano i camini in funzione“.
Piero Terracina, 91 anni, sopravvissuto ad Auschwitz. Arrestato con tutta la famiglia su segnalazione di un delatore. Degli 8 componenti della sua famiglia solo lui farà ritorno a casa. Dagli anni Ottanta parla da testimone della Shoah in scuole, associazioni, università, conferenze, seminari, istituzioni militari, carceri, media.
“Era un inferno, ossia un passaggio nell’aldilà dopo atroci sofferenze. Immediatamente gli uomini vennero separati dalle donne e dai fanciulli, ordinarono loro subito di mettersi in fila ed in cammino e altrettanto fecero con noi che sfilavamo dinanzi a quelle canaglie. Alle mamme vennero subito strappati i bambini dalle braccia. Gettarono queste creature piangenti sul camion come fossero immondizia. Così, dopo tutta la selezione, rimanemmo 65 ragazze, tutte robuste. Ad un certo punto, prima di aspettare l’ordine per incamminarci di nuovo, un tedesco, per caso, vide che una delle ragazze teneva un grosso involto tra le braccia. Le fu intimato di far vedere che cosa c’era dentro e questa, tutta sconvolta e tremante, aprì uno scialle nero di lana e apparve una bella bambina di circa 6 mesi. La madre supplicò tanto il tedesco di non farle del male e chiese di andare dove sarebbe andata sua figlia per seguire lo stesso destino. Ma il tedesco con un grande sogghigno prese la povera creatura, le strappò i poveri stracci di dosso e poi, con grande sveltezza, la scosciò davanti agli occhi inorriditi della madre e di noi tutti. La povera donna non sopportando il grande dolore, cadde subito morta ai nostri piedi. Questa signora era livornese come me, si chiamava Berta Della Riccia. Fu arrestata assieme ai suoi familiari per essere condotta ad Auschwitz. Di tutta la famiglia non è rimasto alcun superstite, perché tutti furono uccisi nelle camere a gas”.
Frida Misul, morta nel 1992 a 73 anni. Sopravvissuta ad Auschwitz. Arrestata dalla polizia italiana ad Ardenza, trasferita nel campo di concentramento di Fossoli, viene brutalizzata durante gli interrogatori perché riveli il nascondiglio dei familiari e del cugino Umberto unitosi ai partigiani. Non cede ed è deportata ad Auschwitz. Prima sottoposta ai lavori forzati, poi ricoverata nell’ospedale del campo, viene salvata dalla sua voce di cantante: la domenica si esibisce per le SS. Dopo vari trasferimenti viene liberata dal lager di Theresienstadt. E’ suo uno dei primissimi memoriali di deportati ebrei: Fra gli artigli del mostro nazista viene pubblicato da Belforte nel 1946.
“Imparammo a non piangere più. Imparammo a non raccontare più: ‘La mia casa era così, la mia mamma era così, mia sorella era così’ perché anche l’altra aveva lo stesso dolore, anche l’altra aveva la stessa fame. Non avevo una spalla su cui piangere e non sono stata una spalla su cui piangere. Quelli che sono stati spalle su cui piangere sono diventati santi. Sono santi. Noi eravamo povere ragazze che parlavano solo di cibo. Il mangiare era diventato una fissazione: oggi non si può capire, oggi è difficile, quasi impossibile raccontare la fame alle nuove generazioni abituate ad aprire il frigorifero e a scegliere, abituate a buttare nella spazzatura alimenti scaduti perché non piaciuti abbastanza.
Noi avremmo mangiato qualunque cosa. E parlavamo solo di cibo. E inventavamo ricette succulente, e immaginavamo torte megagalattiche poste nel centro del piazzale dove c’erano invece le forche. Avevamo una fame terribile e diventavamo scheletro giorno dopo giorno.
All’alba venivamo svegliate da una bastonata, non avevamo orologio, non avevamo radio, non sapevamo mai che giorno fosse, che ora fosse. Venivamo inquadrate all’appello e poi portate al lavoro. Uscivamo dal campo e incontravamo sulla strada per Auschwitz, per andare in fabbrica, quasi tutti i giorni, ragazzi della Hitlerjugend: nostri coetanei, pasciuti che stavano a casa propria. Ci vedevano passare e, non contenti di essere carnefici e figli di carnefici, ci sputavano addosso e ci dicevano parolacce che avrei capito solo in seguito e che mi sarebbero sembrate assurde e ingiuste. Li odiavo allora, con tutte le mie forze, ed è stato liberatorio per me, nella mia età matura, diventata la donna di pace che sono, rielaborare quei ricordi, e avere pena di quegli adolescenti di allora e dei naziskin di oggi”.
Liliana Segre, 89 anni, sopravvissuta ad Auschwitz. Nel campo di sterminio ha perso diversi familiari, tra cui il padre. E’ cresciuta con gli zii e i genitori materni. Si è sposata con Alfredo Belli Paci, anche lui reduce dai lager nazisti per essersi rifiutato di aderire alla Repubblica di Salò, lo Stato fantoccio collaborazionista di Hitler. Decide di iniziare a raccontare dopo 45 anni, quando diventa nonna, dopo un lungo percorso di elaborazione e per la necessità di testimoniare. Da quasi trent’anni gira scuole, associazioni, librerie e congressi per raccontare la sua storia. Nominata senatrice a vita nel 2018 dal presidente della Repubblica nell’80esimo anniversario della promulgazione delle leggi razziali volute ed elaborate dal Duce del fascismo Benito Mussolini. Per effetto di numerose minacce a carattere antisemita, la prefettura di Milano ha disposto per lei una tutela personale.
Per due volte in una settimana Salvini – il supercapo, il vincente dei vincenti, il più forte pro tempore, il leader potente e per questo inconsapevole guida, esempio – si è paragonato a Liliana Segre. Ha smentito dopo quasi un giorno, con molto studio, di averle fatto visita: invece di chiederlo, invece di averlo già fatto, l’ha smentito. A chi chiedeva se fossero più gravi le minacce a lui o alla senatrice a vita ha risposto che aveva appena ricevuto un altro proiettile: “Ma non piango”. Dando per implicito l’indicibile, come spesso fa, in modo subdolo, poco coraggioso per un preteso capitano, il consueto giochetto pavido: alludere per solleticare qualche istinto senza però assumersi la responsabilità. Dice che – non si sa quando – la Segre la incontrerà: “Io ascolto ascolto, è una donna estremamente intelligente. Sono giovane, ho voglia di capire, di imparare e di ascoltare”. Ha 46 anni e non è chiaro cosa c’è ancora da capire su cosa ha imparato nella sua vita Liliana Segre, su cosa c’è da dire di più dopo essere uscita dal campo di sterminio di Auschwitz.
Nei suoi elenchi di parole a caso ripetuti come i giostrai (prendi la codina, sì sì sì) pronuncia molto spesso le parole dignità, onore, rispetto, con la consueta numerazione delle dita che accostano quei termini a una lista della spesa. E sempre a parole – e sempre buttate lì, vuote – parla della necessità di rispetto delle regole, ordine, disciplina, tradizioni, famiglia, educazione civica – quante volte la ripete l’educazione civica.
Ma continua a fingere di non capire che di fronte a storie come quella di Liliana Segre l’unica cosa da fare è tacere: è ritirarsi in un silenzio religioso, doloroso, rispettoso, deferente.
In tutta questa storia il comportamento di Salvini e di chi lo segue non riguarda la politica, non c’entra niente con la libertà di espressione, non c’entra con niente. E’ solo una questione di maleducazione.
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Milano, 17 mar. (Adnkronos Salute) - Bergamo, 18 marzo 2020: una lunga colonna di camion militari sfila nella notte. Sono una decina in una città spettrale, le strade svuotate dal lockdown decretato ormai in tutta Italia per provare ad arginare i contagi. A bordo di ciascun veicolo ci sono le bare delle vittime di un virus prima di allora sconosciuto, Sars-CoV-2, in uscita dal Cimitero monumentale.
Quell'immagine - dalla città divenuta uno degli epicentri della prima, tragica ondata di Covid - farà il giro del mondo diventando uno dei simboli iconici della pandemia. Il convoglio imboccava la circonvallazione direzione autostrada, per raggiungere le città italiane che in quei giorni drammatici accettarono di accogliere i defunti destinati alla cremazione. Gli impianti orobici non bastavano più, i morti erano troppi. Sono passati 5 anni da quegli scatti che hanno sconvolto l'Italia, un anniversario tondo che si celebrerà domani. Perché il 18 marzo, il giorno delle bare di Bergamo, è diventato la Giornata nazionale in memoria delle vittime dell'epidemia di coronavirus.
La ricorrenza, istituita il 17 marzo 2021, verrà onorata anche quest'anno. I vescovi della regione hanno annunciato che "le campane di tutti i campanili della Lombardia" suoneranno "a lutto alle 12 di martedì 18 marzo" per "invitare al ricordo, alla preghiera e alla speranza". "A 5 anni dalla fase più acuta della pandemia continuiamo a pregare e a invitare a pregare per i morti e per le famiglie", e "perché tutti possiamo trovare buone ragioni per superare la sofferenza senza dimenticare la lezione di quella tragedia". A Bergamo il punto di partenza delle celebrazioni previste per domani sarà sempre lo stesso: il Cimitero Monumentale, la chiesa di Ognissanti. Si torna dove partirono i camion, per non dimenticare. Esattamente 2 mesi fa, il Comune si era ritrovato a dover precisare numeri e destinazioni di quei veicoli militari con il loro triste carico, ferita mai chiusa, per sgombrare il campo da qualunque eventuale revisione storica. I camion che quel 18 marzo 2020 partirono dal cimitero di Bergamo furono 8 "con 73 persone, divisi in tre carovane: una verso Bologna con 34 defunti, una verso Modena con 31 defunti e una a Varese con 8 defunti".
E la cerimonia dei 5 anni, alla quale sarà presente il ministro per le Disabilità Alessandra Locatelli, sarà ispirata proprio al tema della memoria e a quello della 'scoperta'. La memoria, ha spiegato nei giorni scorsi l'amministrazione comunale di Bergamo, "come atto necessario per onorare e rispettare chi non c'è più e quanto vissuto". La scoperta "come necessità di rielaborare, in una dimensione di comunità la più ampia possibile, l'esperienza collettiva e individuale che il Covid ha rappresentato".
Quest'anno è stato progettato un percorso che attraversa "tre luoghi particolarmente significativi per la città": oltre al Cimitero monumentale, Palazzo Frizzoni che ospiterà il racconto dei cittadini con le testimonianze raccolte in un podcast e il Bosco della Memoria (Parco della Trucca) che esalterà "le parole delle giovani generazioni attraverso un'azione di memoria". La Chiesa di Ognissanti sarà svuotata dai banchi "per rievocare la stessa situazione che nel 2020 la vide trasformata in una camera mortuaria". Installazioni, mostre fotografiche, momenti di ascolto e partecipazione attiva, sono le iniziative scelte per ricordare. Perché la memoria, come evidenziato nella presentazione della Giornata, "è la base per ricostruire".
Roma, 18 mar. (Adnkronos) - "Vogliamo il pilastro europeo dell'Alleanza atlantica e non lo delegheremo alla Francia e alla Gran Bretagna". Lo ha affermato il capogruppo di Forza Italia al Senato, Maurizio Gasparri, nella dichiarazione di voto sulle risoluzioni presentate sulle comunicazioni del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in vista del prossimo Consiglio europeo. "Per avere i granai pieni -ha aggiunto- bisogna avere gli arsenali pieni, la difesa è la premessa della libertà e della democrazia".
Bruxelles, 18 mar. - (Adnkronos) - Le sedici aziende dell’Alleanza “Value of Beauty”, lanciata a febbraio 2024, hanno presentato a Bruxelles uno studio commissionato a Oxford Economics sull’impatto socioeconomico del settore. Il Gruppo L’Oréal, Kiko Milano, Beiersdorf, Iff, e altri grandi marchi dell’industria vogliono inserirsi nello spiraglio aperto dalla Commissione europea per favorire la semplificazione normativa in vari ambiti, e per chiedere un dialogo strategico sul futuro del settore, come già successo per agricoltura e automotive.
Il settore guarda con attenzione alle proposte su una legge europea vincolante per le biotecnologie e alla strategia per la bioeconomia, che la Commissione si impegna a presentare entro la fine dell’anno. Ma guarda con attenzione anche agli sviluppi nelle relazioni commerciali in Occidente alla luce della recente entrata in vigore dei dazi di Washington sull’import dall’Unione europea.
“Cinque delle sette più grandi aziende del settore hanno la loro sede nell’Ue”, ha sottolineato l’amministratore delegato del Gruppo L’Oréal, Nicolas Hieronimus.
A Bruxelles i sedici membri dell’Alleanza chiedono politiche per la produzione sostenibile di ingredienti e la formazione di personale per sbloccare il potenziale del settore. Un aspetto legato, secondo l’amministratore delegato di Kiko Milano, Simone Dominici, all’impatto positivo che la cura del corpo e dell’estetica ha sull’autostima e sulla salute mentale dei consumatori. Aspetti non trascurati dallo studio dell’Oxford Economics presentato all’ombra dei palazzi delle istituzioni europee. Il rapporto mostra che la spesa dei consumatori nell’Ue per i prodotti di bellezza e cura della persona ha superato i 180 miliardi di euro e dato lavoro a oltre tre milioni di persone, un numero che supera il totale della forza lavoro presente in 13 Stati membri dell’Ue. Troppi anche gli oneri per l'industria della cosmetica che rendono necessaria una revisione della direttiva sulle acque reflue. Forte dei 496 milioni di euro generati ogni giorno e dei 3,2 milioni di posti di lavoro, la cordata dei grandi nomi dell’industria della bellezza chiede che tutti i settori che contribuiscono ai microinquinanti nelle acque siano ritenuti responsabili, in linea con il principio “chi inquina paga”.
I riflettori dell’Alleanza, che guarda anche agli interessi di tutti gli attori della filiera - dagli agricoltori ai vetrai, importanti nella catena del valore quanto le case di fragranze - sono rivolti in primis sull’attesa revisione del regolamento Reach (Regulation on the registration, evaluation, authorisation and restriction of chemicals), che regolamenta le sostanze chimiche autorizzate e soggette a restrizione nell’Unione europea. L’Alleanza chiede che a questa iniziativa, annunciata nel 2020 come parte del pacchetto sul Green deal, si aggiunga anche una revisione del regolamento sui prodotti cosmetici.
L’appello ha come obiettivo la riduzione degli oneri amministrativi e lo stimolo all'innovazione, senza sacrificare l’approccio basato sul rischio per la salute e la responsabilità per la tutela dell’ambiente. Trasmette ottimismo l’iniziativa della Commissione di considerare delle esenzioni per alcune imprese colpite dalla direttiva della diligenza dovuta che imponeva oneri considerati sproporzionati alle piccole e medie imprese, la colonna portante del settore.
“Vogliamo impiegare più tempo alla sostenibilità, piuttosto che alla rendicontazione amministrativa”, è stato l’appello degli amministratori delegati durante la conferenza stampa che ha preceduto gli incontri istituzionali al Parlamento europeo, tra cui quello con la presidente dell’istituzione, Roberta Metsola. Lo studio presentato dimostra che una parte consistente della cura per la sostenibilità ambientale passa anche dalla cosmetica. L’Oréal ha già annunciato che entro il 2030 il 100% della plastica utilizzata nelle confezioni sarà ottenuta da fonti riciclate o bio-based.
Roma, 18 mar. (Adnkronos) - "Mandare soldati in Ucraina mentre ci sono i bombardamenti è una pazzia e l'Italia non farà questa scelta". Lo ha affermato il capogruppo di Forza Italia al Senato, Maurizio Gasparri, nella dichiarazione di voto sulle risoluzioni presentate sulle comunicazioni al Senato del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in vista del prossimo Consiglio europeo.
Roma, 18 mar. (Adnkronos) - "Gli inglesi sono usciti dall'Europa e adesso ci convocano una volta a settimana, facessero domanda per rientrare nell'Unione europea". Lo ha affermato il capogruppo di Forza Italia al Senato, Maurizio Gasparri, nella dichiarazione di voto sulle risoluzioni presentate sulle comunicazioni al Senato del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in vista del prossimo Consiglio europeo.
Roma, 18 mar. (Adnkronos) - "Dei Servizi segreti non si parla nell'Autogrill, si parla nel Copasir, io all'Autogrill ci vado a comprare il panino". Lo ha affermato il capogruppo di Forza Italia al Senato, Maurizio Gasparri, nella dichiarazione di voto sulle risoluzioni presentate sulle comunicazioni al Senato del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in vista del prossimo Consiglio europeo.
Roma, 18 mar. (Adnkronos) - "Da oggi sono autorizzato a dire che la Meloni non smentisce l'utilizzo di intercettazioni preventive nei confronti di un giornalista che attacca il Governo. È una cosa enorme, che ha a che fare con la dignità delle Istituzioni. Se non vi rendete conto che su questa cosa si gioca il futuro della libertà, allora sappiate che c'è qualcuno che lascia agli atti questa frase, perchè quando intercetteranno voi, in modo illegittimo, con i trojan illegali, saremo comunque dalla vostra parte per difendere il vostro diritto di cittadini, mentre voi oggi vi state voltando dal'altra parte". Lo ha affermato Matteo Renzi nella sua dichiarazione di voto sulle risoluzioni sulle comunicazioni al Senato del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in vista del prossimo Consiglio europeo.
"Giorgia Meloni va al Consiglio europeo senza una linea, senza sapere da che parte stare, senza aver avuto il coraggio di rispondere a quella frase che lei stessa aveva detto: 'come diceva Pericle la felicità consiste nella libertà e la libertà dipende dal coraggio'. Se la felicità e la libertà dipendono dal coraggio, Giorgia Meloni -ha concluso l'ex premier- non è felice, non è libera".