Aver ripetuto le elezioni politiche sei mesi dopo non è servito a niente. La Spagna si ritrova gettata nel caos politico più di quanto non fosse ad aprile. E, anzi, la mossa del premier socialista Pedro Sánchez di riportare alle urne il Paese per la quarta volta in 4 anni (per il rifiuto insistito di avere al governo ministri di Podemos) indebolisce lui e i suoi possibili alleati e gonfia le vele di Vox, il partito della destra nazionalista e sovranista che diventa il terzo partito dopo il Psoe e il Partido popular, superando proprio Podemos e Ciudadanos, i due partiti nutriti quasi dieci anni fa dalla stagione degli Indignados. Undici mesi fa, come ha sottolineato il leader Santiago Abascal, Vox non aveva rappresentanti se non qualche consigliere in paesini sperduti: ora è rappresentato a Bruxelles, ha la bellezza di 53 deputati al congresso di Madrid ed è componente essenziale in alcuni enti locali (compreso il Comune della capitale, dove il sindaco José Luis Martínez-Almeida ha il sostegno determinante di Vox, e la Regione dell’Andalusia, dove i sovranisti danno l’appoggio esterno).
Il risultato è che nessuna delle alleanze post-elettorali di governo possibili può raggiungere una maggioranza di 176 seggi necessaria per governare. I socialisti insieme alla sinistra di Podemos e Màs Paìs (partitino nato da una scissione di Podemos) non superano quota 158. I Popolari con Vox e i liberaldemocratici di Ciudadanos si fermano a 149. A essere puniti in particolare sono i partiti ritenuti dall’elettorato come responsabili del blocco delle istituzioni nazionali: i socialisti che hanno rifiutato il patto di governo con Podemos, Podemos che ha rifiutato di dare il solo appoggio esterno, Ciudadanos che ha respinto qualsiasi offerta di collaborazione con un governo Sànchez. Così ad ottenere la fiducia è stato in particolare Vox “nonostante la criminalizzazione” ha rivendicato in piazza Abascal godendosi il grido ripetuto della folla, “Viva España”. “Abbiamo ridato rappresentanza a chi sentiva di non averne più” ha ripetuto, con parole che dovrebbero ormai risuonare familiari dopo le rivolte elettorali degli unforgotten men al di qua e al di là dell’oceano e della Manica.
E così mentre a destra il Partito popolare recupera molti voti dopo il tracollo storico di aprile sulla scia degli scandali giudiziari: anche in Spagna la memoria è corta come in Italia. Ma vede partire la sfida complicata per non farsi sorpassare a destra proprio da Vox. A sinistra, come accade sempre in questi casi, è iniziata una prima resa dei conti. “Si governa peggio con 52 deputati di Vox che con i nostri ministri – dice con ironia amara il leader di Podemos Pablo Iglesias rivolto chiaramente al capo del governo Sànchez – Quella di aprile era un’occasione storica”. E invece ora, persi questi sei mesi per niente, il premier Sànchez riprende il discorso da dove l’aveva interrotto, come se non fosse successo nulla: “Da domani – dice parlando per ultimo tra i leader di partito – lavoriamo per questo governo progressista guidato dal Psoe” cioè la soluzione identica a sei mesi fa. L’appello del capo del governo e del Partito socialista è al “resto dei partiti politici perché agiscano con generosità e responsabilità per sbloccare la situazione politica. Anche il Psoe agirà con generosità e responsabilità”, ma “ha vinto per la terza volta quest’anno” dice riferendosi alle scorse elezioni politiche e a quelle europee. Gli unici esclusi da questa convocazione, precisa, sono i partiti che si lasciano andare al “discorso di odio” e “anti-democratico” (cioè Vox). Un appello così largo che i suoi sostenitori in piazza urlano a più riprese non solo “hemos ganado, dejadnos gobernar” (abbiamo vinto, lasciateci governare) e “presidente, presidente”, ma anche e soprattutto “con Casado no”. Cioè un no grande come la Moncloa – il palazzo del governo – alla gran coaliciòn, alle larghe intese, con i Popolari. Nessun riferimento del capo del governo non solo al fatto che la sua scelta di ripetere le elezioni non abbia migliorato bensì peggiorato di molto il quadro in cui il governo dovrà comporsi. Ma nemmeno alla circostanza che il suo partito nel giro di 6 mesi abbia perso e un milione di voti effettivi.
Ora puntare sullo scenario più probabile per risolvere il rebus della formazione di un governo è come presentarsi al tavolo della roulette. L’ipotesi più probabile resta quella di un governo di minoranza di sinistra a guida socialista, che potrebbe partire solo se il Partito popolare decidesse di astenersi in Parlamento: una scelta da ponderare bene per gli eredi di Rajoy visto che è appena partita la corsa per incoronare il partito guida della destra spagnola da qui ai prossimi anni.
I dati definitivi più precisamente dicono che il Psoe di “Pedro el guapo” perde 3 seggi rispetto all’aprile scorso: avrà 120 deputati grazie al 28 per cento dei voti (6 milioni e 600mila). Primato, sì, ma come l’altra volta inutile. Anzi, ancora più inutile perché Podemos di deputati ne perde 7 rispetto a sei mesi fa, con una percentuale di poco sotto al 13 per cento.
La vera sorpresa è lo spostamento tendenziale a destra dell’elettorato spagnolo, motivato probabilmente proprio dall’inefficacia dei partiti di sinistra che non sono riusciti a formare un governo lasciando il Paese nello stallo totale per altri 6 mesi. I popolari – dopo la crisi nera dovuta agli scandali per corruzione sotto la guida dell’allora premier Rajoy – riprendono ossigeno con il giovane leader Pablo Casado e conquistano 87 deputati, 21 in più rispetto ad aprile, quando d’altra parte aveva toccato il suo minimo storico.
I nazionalisti sono protagonisti dell'”impresa più veloce della democrazia spagnola”, come l’ha definita lo stesso leader Abascal: passano dai 24 parlamentari del Congresso che già sembravano un exploit ai 52 eletti oggi. A perdere – prosciugato dai concorrenti con identità “più marcate” – è l’ala più moderata del campo conservatore: Ciudadanos affonda – come titolano i giornali spagnoli – con un tracollo in termini di voti e seggi: raccoglie solo il 6 per cento dei voti e 10 deputati. Come sottolinea il Paìs ora il problema sarà anche interno al partito che sognava di mangiarsi tutto il centrodestra: Albert Rivera, finora vendutosi come ago della bilancia e kingmaker di eventuali alleanze (a livello nazionale alla fine non ha mai toccato palla), si ritrova una forza politica con la metà dei dirigenti fuori dal Parlamento. Non sarà un bell’ambiente.
I Ciudadanos, tra l’altro, perdono anche la partita nella partita con i partiti indipendentisti della Catalogna, che sarà il problema irrisolto più difficile per il prossimo governo qualsiasi sia. Rivera è sempre stato tra i più intransigenti nei confronti delle spinte secessioniste di Barcellona. E ora si ritrova superato da Esquerra Republicana de Catalunya, il partito degli indipendentisti di sinistra, che diventa la quinta forza politica dentro il Congreso con 13 seggi, pur essendo radicata – si capisce da sé – solo in una regione. Il risultato è reso possibile dagli effetti della legge elettorale che premia i partiti regionalisti: entreranno in Parlamento 16 sigle diverse, in gran parte forze locali per rappresentare le varie identità della Spagna, dalla Galizia alla Navarra, dai Paesi baschi alla provincia di Teruel. E’ un sistema proporzionale puro con soglie di sbarramento e collegi piccoli che poche settimane fa è stato elevato a modello di lavoro da un alto dirigente del Pd per la riforma elettorale promessa dalla maggioranza di governo italiana. Sui risultati di stabilità e semplificazione del quadro politico con questo modello di prova basta chiedere ai compañeros di Madrid.