Spettatori sotto il tendone degli orsi: perplessi. Si esce dalla visione di La famosa invasione degli orsi in Sicilia, diretto dal fumettista Lorenzo Mattotti – dal 7 novembre nelle sale italiane grazie a Bim – con una strana sensazione di vuoto percettivo. Tratto dal libro illustrato di Dino Buzzati datato 1945, e all’epoca pubblicato prima a puntate sul Corriere dei Piccoli, la riduzione cinematografica dalla lunga gestazione (sei anni) a firma di uno dei più celebri disegnatori al mondo (pensiamo solo alle magnifiche copertine per il New Yorker) è un oggetto d’animazione cromaticamente sfavillante, ma allo stesso tempo che fatica ad affermarsi, a rimanere vivido, come senso e morale del racconto oltre la dimensione elementare della fiaba per bambini. L’opera era l’unica produzione italiana nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes.
Per ripararsi del gelo e dalla neve un cantastorie e sua figlia si rifugiano in una grotta abitata da un enorme silenzioso anziano orso. Il duo di saltimbanchi, per non farsi sbranare, anche se l’orso non ne ha la minima intenzione, comincia a raccontargli proprio la famosa invasione degli orsi in Sicilia, ovvero quando al re degli orsi Leonzio i cacciatori delle montagne rapirono il figlio Tonio. Dopo qualche tempo di malinconica catatonia, e spinti da una fame conclamata, Leonzio e i suoi compagni orsi decisero di calare con i suoi 10mila orsi nella terra degli uomini per ritrovare Tonio e un po’ di cibo.
Il Granduca, che comanda come un re ottocentesco le lande di pianura e mare, ne ordina l’istantaneo annientamento, ma gli orsi dapprima stupiti da questa accoglienza reagiscono poi distruggono l’armata ducale e conquistano la città. Proprio là dove, in un circo, sta lavorando come equilibrista il figlio Tonio… Nessuno spoiler, ma possiamo solo dirvi che la pacifica convivenza tra orsi e uomini, con Leonzio re, non durerà a lungo, anche per colpa dell’avidità di potere proprio di un orso. Riprendendo in maniera pedissequa la trama di Buzzati, a cui viene aggiunta la cornice “cantastorie” che permette una via d’uscita su un ipotetico presente del racconto (il “come è andata a finire” viene suggerito dal vecchio orso alla bambina senza che nessuno lo senta), Mattotti prende anche in mano e prova a trasmettere il cuore del racconto buzzatiano che potremmo semplificare con una schietta morale: l’umanità è corrotta e non c’è redenzione per nessuno.
Solo che Buzzati la sua splendida idea l’aveva sviluppata nel 1945, in epoca di aspro e diretto scontro tra capitalismo e comunismo (facciamo uomini/capitalismo e orsi/comunismo). Passato mezzo secolo l’attualizzazione del messaggio diventa pericolosissima e scivolosa. Per questo la casella pare vuota, mancante, addirittura spenta. Uno spazio bianco che, appunto da adulti, si percepisce con incredibile pesantezza. Ecco allora che ci si aggrappa al disegno, all’animazione. Chiaro Mattotti è uno dei migliori disegnatori al mondo. Punto. Le sue tavole ti ipnotizzano e ti lasciano con il naso appiccicato alla vetrina e gli occhi spalancati. Solo che anche qui c’è un problema non di poco conto. I disegni singoli fanno un effetto, montarli e dargli movimento, azione, ovvero farli vivere con l’atto del filmare ne danno un altro. È la differenza basica sta staticità e dinamicità. E questa, ci spiace, è una scommessa perduta.
La famosa invasione degli orsi in Sicilia non palpita, non scorre, rimane tagliata rigidamente tra una tavola e l’altra. Certo Mattotti scrosta le linee austere di De Chirico, scopiazzate da Buzzati, dando al set dei suoi orsi uno sfondo curvilineo e morbido, ma il 2D per questi orsi squadrati o per quegli umani assottigliati, trasmette e patisce un assordante silenzio emotivo. Non aiuta per nulla, infine, il doppiaggio “comico” di Antonio Albanese per il cantastorie e l’apparizione di Andrea Camilleri per l’orso anziano. Un ammiccamento ad una fruibilità, questa sì, inutilmente adulta e leziosa. A niente serve l’apparizione di figure fantastiche come il Gatto mammone, il Serpenton del mare, l’orco locandiere, a rivitalizzare in chiave orientaleggiante un oggetto bello da vedere ma innocuo da intendere. Peccato, ma peccato davvero.