Per la mia generazione i nomi della filosofia italiana – quelli che, per intenderci, a vent’anni si “andava a sentire” – non sono poi moltissimi (e non me ne voglia chi tralascerò): Emanuele Severino, Massimo Cacciari, Gianni Vattimo, Vincenzo Vitiello, Carlo Sini, Giulio Giorello, Umberto Curi, Roberto Esposito e, certamente, Remo Bodei. Non c’era festival o convegno dove qualcuno di loro non comparisse: un fenomeno molto italiano, indulgente a un presenzialismo dall’esito talora un po’ parodico, ma comunque significativo per inquadrare il rapporto tra filosofia e divulgazione in un mondo, quello dopo la caduta del Muro, in cui gli “intellettuali”, per illudersi di giocare ancora un ruolo, hanno dovuto aggiornare il loro profilo da engagé a pop o simil-pop.
Così, raggiuntami la notizia della morte di Bodei, mi ha colto una strana malinconia, legata non tanto al suo lascito “speculativo”, ma al prendere coscienza che una figura che in qualche modo ha accompagnato anche il mio percorso di studio e di ricerca è venuta meno. Era abituale che ci fosse, che, con certa frequenza, uscisse un suo libro, o che, di tanto in tanto (magari a distanza di qualche anno), capitasse una conversazione o un incontro, da una parte o dall’altra del globo.
Sulla biografia filosofica di Remo Bodei molto in questi giorni è stato scritto. Anziché sondare da diversa prospettiva i territori, vari e amplissimi, delle sapienti divagazioni di cui era maestro, preferirei allora tentare, in poche battute, un ritratto qualitativo – dunque né dossografico né bibliografico – del suo tipo intellettuale: la figura di un laico chierico globale, enciclopedico ma con disinvolta sobrietà, dotato di conoscenze accuratissime quanto straordinariamente estese, e di una memoria prodigiosa, la cui monumentale erudizione era soggetta a un ridimensionamento continuo operato dall’immancabile ironia che, anch’essa spesso su base aneddotica, fungeva da corrosivo delle proprie stesse affermazioni. Come a smitizzarle per far intendere che, nella matassa dei nessi, c’erano sempre altre strade da percorrere, altre suggestioni da seguire, affini ma anche dissimili da quelle già evocate.
Per tutte queste caratteristiche, il nome di Bodei è sinonimo di instancabile curiosità e di quella che un tempo si sarebbe detta cultura. Parola oggi quasi impronunciabile poiché da un lato disprezzata con orgoglio da tutti quelli che non ce l’hanno e dall’altra espunta da una classe universitaria di tecnocrati variamente digiuni di nozioni elementari, i quali, presi come sono a affastellare paper e pubblicazioni di nessun interesse, hanno orgogliosamente abolito la figura dell’intellettuale novecentesco, rimpiazzandola con quella di impiegati del sapere che farebbero fatica a fare una lezione su un tema anche poco distante da quello del loro Ph.D.
Mentre invece personalità come Bodei erano in grado di confrontarsi con gli specialisti di qualsiasi argomento (nell’ambito delle “scienze dello spirito“, beninteso) dimostrando in ogni campo di avere idee più precise e penetranti dei presunti “esperti”. Perché il suo habitus mentale, che a un’assidua disciplina nello studio affiancava la passione per l’intelligenza in tutte le sue epifanie, si basava sull’assunto – oggi incomprensibile ai più – che conoscere a memoria la Divina Commedia incrementa in modo fondamentale la nostra capacità di capire l’epistemologia di Paul Dirac, le tre critiche kantiane, i Moralia di Plutarco o i romanzi di Henry James.
O che la conoscenza delle lingue classiche è un prerequisito essenziale per poter anche solo pensare di dire qualcosa di sensato in filosofia (anche se si sta scrivendo un libro sul design o sulla teoria contemporanea dell’informazione). Affermazioni, queste, che basterebbero oggi per far licenziare in tronco interi Dipartimenti per manifesta incompetenza.
L’intellettuale onnivoro, che ha passato decenni sui libri, frequentando indifferentemente musei, cinema o sale da concerto, o magari esplorando città e che non ha mai saputo perdere davvero tempo – perché tutto, nella sua vita, è stato un “enorme esperimento volto alla conoscenza”, dunque all’assimilazione e all’espressione -, questo peculiare tipo d’uomo la cui vita ha anzitutto – ma con la debita mitezza – la forma del sapere, è del tutto in via d’estinzione.
E viene anzi guardato con diffidenza, e non di rado sufficienza, da più o meno giovani schiere di “studiosi” col curriculum inappuntabile che, a chiederglielo, non saprebbero nemmeno dire la data della presa di Costantinopoli o che cosa sia la Dottrina Monroe. Il miglior modo di rendere onore a figure come quella di Bodei sarebbe lottare perché il tipo di desiderio che ha incarnato continui a vivere e ad avere un suo legittimo posto nel mondo.
Ogni volta che s’incontrava Remo Bodei si aveva la certezza che si sarebbe imparato qualcosa di nuovo. Che ci si sarebbe infilati nella prima libreria a cercare un titolo, o dritti a casa a colmare una lacuna di cui sotto sotto c’era da vergognarsi. Quanti, oggi, nel mondo universitario condividono queste urgenze o almeno capiscono di cosa si stia parlando?