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Videogiochi, la Cina ne limita l’uso? Nonostante tutto, concordo con questa scelta

Trovo sul The Times of India del 7 novembre (sono a Jaipur per i progetti scolastici di Vivere con Lentezza) la notizia che il governo cinese ha appena deciso di limitare l’uso dei videogame, per i minori di 18 anni, per 90 minuti al giorno, dalle 8 alle 22 durante la settimana e a un massimo di tre ore nei weekend e nelle festività. Da tempo se ne parlava, ma la decisione è freschissima. Le motivazioni di questo provvedimento derivano dal fatto che è stato rilevato un aumento della miopia a livello giovanile e un abbassamento drastico delle performance universitarie.

Il fenomeno dei videogames in Cina riguarda centinaia di milioni di persone e la sua industria raggiunge i 33 miliardi di dollari all’anno. Oltre a questo provvedimento si è inoltre deciso di bloccare la vendita di alcuni titoli particolarmente violenti, “avvelenatori”. Si tratta di un buon provvedimento? Forse è presto per giudicare ma personalmente sono convinto che lo sia. Si sarebbe potuto fare meglio? Di sicuro, ma non si può negare che questa scelta mostra un’assunzione di responsabilità sul tema della salute mentale e sociale dei cittadini.

In Cina le limitazioni all’uso della rete e il controllo sui social non sono una novità e rappresentano un motivo di dibattito sulla reale libertà in quel Paese, sul fatto che certi dati non si possano attribuire solo all’eccesso di videogioco, e che questi provvedimenti siano più facili in un paese a libertà limitata.

Purtuttavia non riesco a non concordare con questa scelta. Si tratta di una presa di posizione, un’assunzione di responsabilità con cui confrontarsi e che probabilmente si riverserà sulle famiglie, sulle scuole e sulle comunità, ma che comunque stabilisce un limite da cui dipenderanno i comportamenti individuali. Una presa di posizione con cui si potrebbero confrontare i sistemi di altri Paesi che hanno una visione molto diversa sulle libertà individuali. Certo, si tratta di un tema scottante, ma immagino sia sotto gli occhi di tutti l’incapacità delle famiglie, delle scuole e della società di intervenire su un fenomeno allarmante, che raggiunge spesso punte drammatiche di dipendenza, riguardo al quale le persone sono lasciate sole.

A metà degli anni novanta, con Fulvio Scaparro, Gustavo Pietropolli Charmet e Gigi Tagliapietra, elaborammo un codice di comportamento per i bambini su Internet per fornire strumenti alle famiglie in modo da non abbandonarle di fronte a una novità di così grande portata. Si trattava di consigli di buon senso, che andavano oltre l’uso di sistemi di blocco su parole chiave, spesso assurdi e incomprensibili.

Non ebbe molto seguito: da alcuni fu osteggiato, ma soprattutto quando proposi alla multinazionale per cui lavoravo, l’Ibm, di adottarlo, mi obiettarono che avrebbe rafforzato l’atteggiamento del governo Cinese nei confronti di Internet. La Cina ritorna e spero non si tratti di una mia originaria voglia di controllo di massa. Controllo di massa che non si può non temere, ma l’interrogativo è lo stesso che si pone di fronte all’invasione della nostra privacy da parte delle grandi piattaforme digitali: che cosa è meglio?

Non oso immaginare che reazioni susciterebbe oggi una proposta del genere in Italia e come potrebbe essere applicata, ma mi piacerebbe parlarne. Spero non solo rievocando la grande visione orwelliana.