Nel 1963 il professor Giulio Natta vinse il premio Nobel per la fisica per i suoi studi sul polipropilene. Nemmeno dieci anni dopo, i giocattoli, le siringhe, il paraurti delle auto erano già di plastica. Versatile, leggera, economica: un miracolo produttivo, ma con un costo ambientale enorme, di cui il mondo si è accorto solo quando era quasi impossibile farne a meno. Mentre si discute sull’opportunità di introdurre nella prossima manovra una tassa sugli imballaggi, a Montecitorio una tavola rotonda promossa da BASF e Globe Italia, con il patrocinio dell’Ispra, prova a ripensare la plastica. Il mondo della ricerca, l’industria, la politica e le associazioni ambientaliste si sono confrontati sul futuro di un materiale che ha attraversato la storia dell’industria italiana, dal Moplen di Natta al biodegradabile. “Discutere di questi temi significa parlare di economia e industria, non solo di ambiente”, commenta la deputata Chiara Braga, coordinatrice dell’intergruppo sullo Sviluppo sostenibile. “L’Italia è stata all’avanguardia in molti aspetti, dalle bioplastiche alla messa al bando del monouso: bisogna vedere anche questa sfida come un’occasione di riqualificazione del nostro sistema industriale”.
“La tecnologia consente di trasformare ciò che noi buttiamo in energia o altri prodotti: questa può essere una grande opportunità economica che dobbiamo saper cogliere”, dice il vicepresidente della Camera, Ettore Rosato, portando i saluti istituzionali. “Dobbiamo essere audaci e spingere sull’acceleratore”. L’incontro era stato organizzato in chiusura della mostra di National Geographic “Planet or Plastic?” ma per un singolare tempismo è capitato nel culmine del dibattito sulla plastic tax. “Una tassa del genere è presente in varie forme negli stati europei”, ricorda Roberto Morassut, sottosegretario al ministero dell’Ambiente. “Colpisce principalmente i prodotti monouso e usa e getta, e lascia fuori i prodotti sanitari. Inoltre, nel testo della legge di bilancio si dice chiaramente che sono escluse le plastiche compostabili“.
L’Italia, continua Morassut, è all’avanguardia per quanto riguarda la green economy, ma bisogna agire principalmente su tre fronti: gli investimenti, gli aspetti normativi e un uso “saggio” della leva fiscale. “Bisogna sostenere le imprese che già si muovono in direzione virtuosa e colpire quei comportamenti che hanno conseguenze dannose sugli ecosistemi”. Solo nel Mediterraneo vengono disperse ogni anno tra le 50 e le 70mila tonnellate di plastica, principalmente prodotti monouso o derivati da attività di pesca. L’80% della plastica dispersa proviene da acque interne, cioè dai centri abitati. Le bottiglie che galleggiano nelle calette e nei porti sono solo la punta dell’iceberg del problema, perché il 70% di questi materiali plastici affonda. C’è poi un problema che non si vede, quello delle microplastiche. L’Ispra (Istituto italiano di protezione e ricerca ambientale) prova a fornire un quadro più preciso: dei 25,8 milioni di tonnellate di plastica prodotti in Europa ogni anno, solo il 30% viene riciclato.
“Troviamo abbastanza paradossale il dibattito sulla plastic tax”, commenta Stefano Ciafani, presidente di Legambiente: “Prima tutti ad applaudire i ragazzi del Fridays For Future e a regalare borracce, ma poi arriva la tassa, marcia indietro“. Tuttavia ci sono dei punti da migliorare: “Oltre ai 2 milioni di imballaggi ci sono altri 4 milioni di materiali plastici che non vengono tassati. Giusto esentare le bioplastiche, ma bisogna esentare anche gli oggetti prodotti da plastica riciclata, altrimenti non ha senso”. Secondo Ciafani, l’educazione da sola non basta, serve una legge: “La legge sui sacchetti riutilizzabili ha cambiato gli stili di vita, prima se andavi al mercato con la sportina eri uno sfigato, oggi se non ce l’hai ti senti in colpa”. Secondo Enrico Giovannini, portavoce dell’Asvis (Alleanza italiana sviluppo sostenibile) serve una governance organica e non degli interventi sporadici: “Non si tratta di spendere di più, ma di connettere i puntini. Le leggi ci sono, ma vanno applicate”. Come la legge 221 del 2015, che prevede di smantellare gradualmente i sussidi a settori dannosi per l’ambiente e trasformarli in sussidi per lo sviluppo sostenibile.
Contrario alla plastic tax invece si dicono Alessandro Manuel Benvenuto, presidente della VIII commissione ambiente della Camera in quota Lega e la deputata di Forza Italia Claudia Porchietto, che la considerano “scritta solo per far cassa”, con un costo che pagheranno imprese e cittadini “penalizzando il sistema produttivo e facendo scappare le aziende che vogliono investire qui”. Replica la deputata Pd Chiara Braga: “Da più parti si vuole migliorare, ma non può essere un tabù l’idea di diminuire imballaggi e rifiuti nel nostro Paese, bisogna ridurre a monte”.
Massimo Covezzi, presidente di PlasticsEurope, elenca i diversi vantaggi della plastica, inclusi quelli ambientali: “Innanzitutto è il materiale con le emissioni di Co2 più basse, e rispetto alle auto, all’energia e a quel che mangiamo, gli imballaggi contribuiscono solo per lo 0,3% alle emissioni pro capite. Va bene il plastic-free, ma bisogna comprendere le conseguenze, come lo spreco alimentare: la vita del cibo sugli scaffali viene notevolmente allungata dalle confezioni di plastica”. Una soluzione allora può essere il riciclo chimico: “Permette di ri-sintetizzare la plastica come se fosse vergine e quindi di chiudere il cerchio. E ha il vantaggio di poter essere usata in ambito medico e ospedaliero, che hanno standard igienici e di sicurezza elevatissimi”. Filippo Di Quattro di Basf Italia, aggiunge: “Il recupero chimico perché può riciclare la plastica per cui non esistono ancora soluzioni di riciclaggio meccanico, e ‘ripulire’ anche un prodotto che presenta residui, come i contenitori alimentari sporchi”. Il problema secondo Di Quattro non è la plastica in sé, ma una sua gestione sbagliata: “Bisogna ripensare il suo fine vita: è un bene troppo prezioso per lasciarla nei nostri fiumi e mari”.