Il golpe in corso in Bolivia contro Evo Morales mi ricorda, per certi versi, quello avvenuto in Cile poco più di 46 anni fa. Dopo oltre dieci anni di buon governo e dopo appena essere stato riconfermato dalle elezioni avvenute pochi giorni fa, Evo Morales è stato costretto a rinunciare alla sua carica da una pressione violenta esercitata, sul piano interno, da gruppi di oppositori che operano mediante incendi, intimidazioni e pestaggi e, sul piano internazionale, dalla scelta del governo degli Stati Uniti di puntare su questo nuovo “anello debole” del continente americano per riguadagnare le posizioni recentemente perse in Argentina e a rischio per i movimenti popolari di grandi dimensioni che si sono scatenati in Ecuador e proprio in Cile.

I risultati ottenuti dal governo di Evo Morales non vengono negati neanche dai suoi più accaniti detrattori. Né l’Organizzazione degli Stati Americani, che ha ripreso a pieno la sua tradizionale funzione di ministero “delle Colonie di Washington” – secondo la definizione che diede Fidel Castro – ha messo in discussione la vittoria di Evo al primo turno delle elezioni presidenziali, sostenendo solo, sulla base di proprie congetture a mio avviso indimostrabili, che non si sarebbe registrato un distacco sufficiente a evitare il secondo turno. Al contrario altri studi, come uno molto dettagliato redatto dal Center for Economic and Policy Research di Washington, hanno affermato l’assenza di frodi e l’esattezza del computo effettuato dagli organismi nazionali competenti.

Eppure un signore di nome Camacho, alla testa delle torme che stanno devastando oggi una parte del Paese, incendiando fra l’altro le abitazioni di taluni ministri in carica e dei loro parenti e sedi diplomatiche come l’Ambasciata della Repubblica bolivariana di Venezuela, vuole secondo me la testa di Evo Morales, come Pinochet pretese ed ebbe quella di Salvador Allende.

Un altro elemento in comune con la situazione cilena del 1973 è il ruolo del tutto negativo svolto dalle Forze armate. Le gerarchie militari e quelle poliziesche, se prive di una solidarietà sociale e ideologica con i governi progressisti, finiscono per vendersi al migliore offerente rifiutandosi, quantomeno, di intervenire per garantire la tutela dell’ordine pubblico contro i gruppi terroristici ed estremisti come quelli che stiamo vedendo all’opera ora in Bolivia.

Ma questo atteggiamento irresponsabile apre la strada alla guerra civile. Un elemento del tutto diverso rispetto alla situazione cilena del 1973, infatti, è costituito dall’esistenza di un movimento popolare organizzato, formato prevalentemente da indigeni, contadini, operai e minatori, per nulla disposti ad assecondare la liquidazione politica e fisica del proprio amato leader e ad assistere imbelli alla nuova svendita del Paese alle multinazionali e alle oligarchie interne e internazionali.

È quindi probabile che, nonostante i generosi sforzi di Evo Morales che – pur di evitare il bagno di sangue – ha ceduto al ricatto della destra dando le dimissioni, si vada verso una non breve stagione di contrapposizione violenta tra il movimento popolare e la destra razzista, che ha sempre visto come fumo negli occhi il presidente indigeno e vuole tornare al tradizionale ruolo di colonia statunitense.

Questa destra è pronta, come si è già visto, a ogni crudeltà e sopruso pur di riaffermare i propri privilegi. Ma un popolo come quello indigeno boliviano, che ha assaporato la libertà per la prima volta nella sua storia negli ultimi dieci anni, sarà capace di ogni sacrificio e di ogni eroismo per non tornare nella tradizionale situazione di oppressione e discriminazione.

Un altro elemento diverso rispetto ad allora è poi costituito dal differente panorama internazionale e regionale in particolare. Proprio negli ultimi tempi si registra in America Latina un ritorno di fiamma delle forze progressiste che porranno certamente al centro della loro attenzione il problema del ripristino della democrazia in Bolivia. Tema che deve essere all’attenzione di tutti i democratici a livello mondiale.

Ci si aspetta – in particolare dal Movimento 5 stelle, che a suo tempo con Alessandro Di Battista e Manlio Di Stefano incontrò Evo Morales – un atteggiamento che sia all’altezza della situazione, specie tenendo conto del fatto che Luigi Di Maio esercita oggi il ruolo di ministro degli Esteri.

L’Italia si muova quindi con determinazione per negare il riconoscimento al regime golpista e sviluppare invece concreta e fattiva solidarietà con Evo e il popolo boliviano, per giungere il prima possibile e con il minor spargimento di sangue possibile al ritorno alla normalità democratica nel Paese.

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