Il decreto Sicurezza non si applica retroattivamente alle domande di protezione umanitaria. Quest’ultimo permesso non può essere concesso al migrante per il solo fatto che questi sia inserito economicamente e socialmente nella società italiana. Sono i due principi fissati oggi dalla Corte di Cassazione. Le Sezioni Unite civili si sono espresse sul decreto legge 113/2018, voluto dall’ex ministro dell’interno Matteo Salvini, entrato in vigore il 5 ottobre 2018 e convertito con la legge 132/2018, che ha introdotto norme più rigide in tema di immigrazione e sicurezza. Occasione del verdetto chiarificatore è stato il ricorso del Viminale contro tre casi di concessione di permessi di soggiorno per motivi umanitari.
In uno dei verdetti emessi i giudici di piazza Cavour si sono espressi sul caso di un cittadino del Gambia cui la Commissione territoriale aveva negato il riconoscimento dello status di rifugiato, la protezione sussidiaria e quella umanitaria. Il richiedente asilo aveva quindi impugnato la decisione dinanzi al Tribunale di Trieste. Quest’ultimo in primo grado gli aveva dato torto, ma in Appello aveva riconosciuto la sussistenza dei presupposti del rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Contro quest’ultima sentenza il ministro dell’Interno aveva fatto ricorso in Cassazione.
Oggi gli ermellini hanno stabilito che il diritto alla protezione “sorge al momento dell’ingresso in Italia in condizioni di vulnerabilità per rischio di compromissione dei diritti umani fondamentali e la domanda volta a ottenere il relativo permesso attrae il regime normativo applicabile”, scrive la Cassazione. Quindi il dl Salvini “non trova applicazione in relazione a domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore (5 ottobre 2018) della nuova legge; tali domande saranno, pertanto, scrutinate sulla base della normativa esistente al momento della loro presentazione“, ovvero la normativa preesistente al decreto Sicurezza.
In questo caso, però, “l’accertamento della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari (…) comporterà il rilascio del permesso di soggiorno “per casi speciali” previsto dall’articolo 1 comma 9 del decreto legge”. Ovvero un permesso “della durata di due anni, convertibile in permesso di soggiorno per motivi di lavoro autonomo o subordinato”. “E’ con la domanda in sede amministrativa che il titolare del diritto esprime il bisogno di tutela”, argomenta la corte, e sarebbe “irragionevole assegnare diverso trattamento normativo a situazioni soggettive sostanziali già sorte e fatte valere con la domanda”.
D’altra parte, tuttavia, il solo dato di essersi socialmente ed economicamente inseriti nella società italiana non è sufficiente per dare ai migranti il permesso di soggiorno per motivi umanitari. La Cassazione ha stabilito, infatti, che occorre comparare anche la “specifica compromissione” dei diritti umani nel paese di origine di chi richiede il permesso di soggiorno in Italia e ha annullato con rinvio la decisione della Corte d’Appello di Trieste che aveva concesso al cittadino gambiano permesso di soggiorno per una generica situazione di pericolo alla quale sarebbe stato esposto prima di arrivare in Italia. La Suprema Corte ha annullato con rinvio al giudice di merito anche il caso di un bengalese che aveva avuto il permesso perché aveva trovato lavoro stabile a Firenze, e di un altro cittadino gambiano.
“Sui permessi umanitari aveva ragione la Lega. L’ha stabilito la Corte di Cassazione. È la migliore risposta agli ultrà dei porti aperti e che vorrebbero cancellare i decreti sicurezza”, ha commentato Matteo Salvini. Le cose non stanno esattamente così. “La Cassazione ha ribadito principi già sanciti dalla stessa corte con due recenti sentenze – spiega Nazzarena Zorzella, avvocato dell’Asgi, Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione – ovvero la 4455/2018, che eleva l’integrazione sociale a motivo rilevante per la determinazione della vulnerabilità individuale, e la 4890/2019 che stabilisce la non retroattività del decreto”.
“La conseguenza del dl Sicurezza è stata che la percentuale di concessione della protezione umanitaria oggi è dell’1% – prosegue l’avvocato – perché già dopo la circolare ministeriale che aveva preceduto il decreto le commissioni territoriali avevano praticamente smesso di valutare le richieste. La sentenza delle sezioni unite è immediatamente applicabile, fin dalle stesse commissioni. Ora i richiedenti asilo che si sono visti non esaminare le richieste di protezione umanitaria potranno presentare domanda di riesame della loro pratica”.