Cultura

Salviamo Venezia, altrimenti ci toccherà andare a Las Vegas per visitarla

Francamente mi sono stancata di scrivere sgomenta sui beni culturali in rovina: Venezia rischia di morire, questa volta sul serio, sotto l’acqua; Torino ha avuto, tre volte, un imponente complesso sabaudo divorato dalle fiamme e terremoti, non dico prevedibili ma in zone notoriamente a rischio sismico, con monumenti che avrebbero potuto essere monitorati e che invece sono andati irrimediabilmente persi.

La stessa ricostruzione, anche in zone virtuose come l’Emilia Romagna, stenta a decollare, con amministrazioni che invocano progetti di nuove costruzioni anziché recuperare celermente le testimonianze del passato.

A rischio di “passare per passatista” – mi si perdoni il gioco di parole – insisto perché l’Italia impieghi tutte le sue energie, anche ricorrendo all’aiuto di privati volenterosi, mecenati o sponsor, nella salvaguardia del suo patrimonio architettonico. Bisogna ridurre drasticamente il consumo del suolo e recuperare borghi, edifici storici a nuove funzioni. D’altra parte è la storia dell’architettura che ce lo insegna; chi lo nega evidentemente non ha studiato gli avvicendamenti degli edifici, passati attraverso stratificazioni per gli usi diversi dall’impianto originario.

Ovviamente senza stravolgere e con il rispetto dovuto alla dignità e al decoro di un bene vincolato, è meglio restaurare, consolidare, rifunzionalizzare che lasciare al degrado il patrimonio esistente.

Di Venezia e del Mose ho già parlato diffusamente un anno fa: si tratta ormai di una questione più giudiziaria che tecnica, cui va posto subito rimedio. Troppi ritardi, troppe connivenze hanno portato al disastro odierno. Per distrarci, in giornate così drammatiche, potremmo ricordare i tantissimi tentativi di imitazione della città lagunare.

La prima è del 1908, ideata da Abbot Kinney, magnate del caffè, che costruì “Venice of America”, ovviamente in stile yankee, con tanto di gondole e gondolieri. Venezia, per gli americani, diventò una specie di ossessione, con repliche infinite a Las Vegas – tanto per incominciare [vedi foto in evidenza] – e poi con ben 27 città che portano il suo nome; per non parlare del Brasile che ne conta “solo” 22. Narra la leggenda che il Venezuela abbia fatto derivare il suo nome dalla città italiana per il fatto che l’area di Maracaibo è costruita su palafitte.

L’Europa non è da meno: in Portogallo c’è Aveiro, poi Amsterdam, Amburgo, Bruges, Stoccolma, Pietroburgo, tutte con il titolo di “Venezia del Nord” solo per qualche canale che le interseca. A questo punto anche la nostra bellissima Mantova con i canali voluti dai Gonzaga, che già Montesquieu vedeva nel 1729 come una “seconda Venezia”, ovviamente questi ultimi casi, nulla hanno a che fare con le americanate sopradescritte.

La provocazione del padre del futurismo, Filippo Tommaso Marinetti, appare adesso un’agghiacciante minaccia o presagio. Nel suo manifesto volantinato dalla Torre dell’Orologio, l’8 luglio del 1910, dal titolo Contro Venezia passatista scriveva: “Noi vogliamo guarire e cicatrizzare questa città putrescente, piaga magnifica di passato. Noi vogliamo preparare la nascita di una Venezia industriale e militare che possa dominare il Mare Adriatico, gran lago italiano. Affrettiamoci a colmare i piccoli canali puzzolenti con le macerie dei vecchi palazzi. Bruciamo le gondole, poltrone a dondolo per cretini, e innalziamo fino al cielo l’imponente geometria dei ponti metallici e degli opifici chiomati di fumo, per abolire le cure cascanti delle vecchie architetture”.

Marinetti ipotizzava di asfaltare anche piazza San Marco e farla diventare un grande campo volo. Ma la provocazione futurista non faceva paura tanto quanto i progetti presentati alcuni decenni fa dallo stilista francese di origine veneziana Pierre Cardin, che voleva farne una Venice Lumière con un grattacielo, da competere con il Campanile di San Marco, di ben 250 metri di altezza. Altri progetti deturpanti e ripugnanti si sono presentati nel corso dei secoli, con il preciso intento non di salvaguardare l’integrità e la storia del Lido ma di fruire di un brand che fa cassa senza riguardo alla sua secolare e leggendaria bellezza.