Arriva una doppia sentenza per la morte di Stefano Cucchi, a dieci anni di distanza dai fatti. Dieci anni durante i quali per la prima volta l’Italia ha guardato a cosa accadeva dentro quelle aule di giustizia. Il caso Cucchi ha prodotto qualcosa di mai visto prima. Le violenze subite in stato di custodia – purtroppo Stefano non è stato il primo né l’ultimo – erano in passato qualcosa che riguardava le persone vicine, qualche avvocato, qualche associazione come Antigone che ha nella propria mission la tutela dei diritti delle persone detenute.
La vicenda Cucchi ha indignato invece l’Italia intera. È uscita dalla cerchia degli specialisti. Se ne è parlato nei talk show, sui social network, nella metropolitana, nei bar, nelle curve degli stadi. Un’indignazione non più settoriale ma di massa. E l’indignazione di massa è la forma più alta di controllo sociale e di tutela dei più deboli. Ha vinto la giustizia e abbiamo vinto tutti noi.
Oggi siamo alle sentenze. Si riconoscono le colpe mediche nel primo processo avviato. Vedremo se ci sarà un ricorso in Cassazione e quale sarà la sentenza definitiva. È intervenuta la prescrizione, è vero, ma ciò non significa che quelle colpe non siano state viste e certificate. Se poi la giustizia non riesce a concludere i procedimenti in tempi ragionevoli, è giusto che nessuno sia imputato a vita.
Nel secondo processo le condanne sono state nette. È stato omicidio preterintenzionale. La fattispecie di reato che in passato non fu usata per altri omicidi avvenuti per mano delle forze dell’ordine. Penso a quello di Federico Aldrovandi, rubricato come un reato colposo. Due carabinieri si vedono oggi infliggere una pena di dodici anni di carcere. Non bisogna mai esultare davanti a una persona che entra in carcere e non è questa adesso la mia intenzione.
Ma va riconosciuta l’importanza di una sentenza che sconfigge le omertà e lo spirito di corpo che da sempre hanno caratterizzato queste vicende e le hanno protette nell’impunità. Quest’ultima, inevitabilmente, permette alla violenza di continuare a perpetrarsi. Ci sono voluti dieci anni, ma finalmente è stato riconosciuto quello che tutti sapevamo fin dall’inizio, e cioè che Stefano non è morto di morte naturale. Un reato compiuto da un pubblico ufficiale è un reato che riguarda tutti noi. Uno Stato che tiene in custodia ci rappresenta, lo fa anche a nome nostro. La tortura – sebbene dieci anni fa questo termine non comparisse ancora nel codice penale italiano – non è un reato privato.
Oggi il web si complimenta con Ilaria Cucchi e la sua famiglia. Si complimenta per la tenacia, per la forza dimostrata nel portare avanti, insieme all’avvocato Fabio Anselmo, una richiesta di verità e giustizia che tante, troppe volte l’ha vista umiliata e trattata quasi come fosse lei la colpevole e non la vittima. È vero: Ilaria è stata grandiosa in questi anni. Ma una cosa non dobbiamo mai perdere di vista: non deve servire Ilaria Cucchi affinché ci sia giustizia. Non deve essere necessaria la determinazione di una sorella, la malattia dei genitori affaticati dal processo, per avere verità.
Lo Stato dovrebbe farsene carico a prescindere dalla capacità della vittima di chiedere giustizia. Non tutti hanno le capacità di Ilaria, alla quale dobbiamo dire grazie per ciò che è stata capace di fare. Ma non basta essere contenti perché lei c’è riuscita. Dobbiamo pretendere che sempre e comunque, per volontà dell’autorità pubblica e non di una privata famiglia, gli abusi da parte delle forze dell’ordine vengano perseguiti e puniti.