Un'opera così poteva averla girata un Clint Eastwood dei tempi d’oro. Un film dal passo calibrato, dall’impostazione solida, drammaturgicamente tesissimo ma senza strafare
Un gioiellino così, come Le Mans ’66 – La grande sfida, poteva averlo girato un Clint Eastwood dei tempi d’oro. Un film dal passo calibrato, dall’impostazione solida, drammaturgicamente tesissimo ma senza strafare. La corsa automobilistica ad oltre 320 all’ora, motore a 7mila giri, l’abitacolo dell’automobile che si stringe fino ad una fessura, un morbido drifting ripreso con una carrellata in avanti. Accidenti che tecnica controllata al millimetro. Un film tendenzialmente action su una sfida automobilistica ai più poco conosciuta, ma che negli States ha dello strabiliante. Perché nello storico circuito francese, dove si svolge ancora oggi una corsa lunga 24 ore senza pause, nel 1966 per la prima ed ultima volta nella storia una casa automobilistica statunitense, la Ford, vinse la gara e piazzò addirittura tre auto sul podio.
L’avversaria, manco a dirlo, era la Ferrari. A far compiere il grande salto alla Ford furono lo stiloso designer di auto Carroll Shelby (Matt Damon) e il pilota segaligno Ken Miles (Christian Bale). Arruolati dall’indiavolato Henry Ford II (Tracy Letts) arrivò prima Shelby che, a sua volta, volle a tutti i costi in scuderia il semisconosciuto ma impavido pilota Miles. In mezzo ci si mise il viscido vicepresidente Ford, tal Leo Bebee (Josh Lucas) che non sopportava ci fosse un rozzo e provinciale come Miles al volante. Allo stesso tempo se a livello di racconto lo scontro deve apparire soprattutto casalingo, tutto interno tra fordisti; dall’altro lato dei box c’è la Ferrari, anzi Enzo Ferrari. Interpretato da Remo Girone, il Drake pasteggia a vino a pastasciutta su un tavolo con tovaglia a quadretti bianchi e rossi ai bordi dell’officina dove il team ruspante del Cavallino Rampante disegna prototipi dei sogni. Ferrari rifiuta la scalata proprio degli emissari Ford (altri tempi, e in più c’era l’Avvocato con la Fiat a rifornire la rossa) e quando vede che Miles è un vero drago del volante si toglie il cappello e gli tributa il dovuto onore. Le Mans ’66 (in originale Ford vs. Ferrari) non è propriamente un forsennato tran tran di pista alla Giorni di tuono, o un distinto fake con parrucche come Rush, ma nemmeno una follia personale e produttiva come il Le Mans di Steve McQueen. Semmai James Mangold, coadiuvato allo script da Jason Keller, Jez e John-Henry Butterworth, rimescola le carte di un racconto che sa essere sia adrenalinico che intimista.
Lo spazio stretto di una traiettoria di taglio di una curva a sfiorare i battistrada, per dire, vale tanto quanto una splendida inquadratura modello cinemascope a figura intera dove Miles spiega al figlio alcuni semplici segreti di guida mentre sullo sfondo notturno decollano i jumbo. Non aspettatevi, quindi, la tensione della gara sparpagliata su due ore e mezza di film. Almeno un’ora e mezza è fatta di hangar, officine, box, uffici, polverosi percorsi di prova nel deserto; mentre è l’ultima mezz’ora a far rifiorire la pura azione della gara. Immenso il lavoro di production design con dettagli di set d’epoca immersi in una palette di colori caldi e una ricerca elegante, puntuale ma mai esibizionista di particolari nell’abbigliamento dei singoli (occhiali da sole, polo fluttuanti, giubbetti corti, cravattine sottili).
Un altro paio di considerazioni. Mangold, che tra Quando l’amore brucia l’anima e Logan – The wolferine si era parecchio perso di vista dimostra di sapere amalgamare accelerazioni e rallentamenti del racconto, vis a vis in campo e controcampo e scene d’insieme sfruttando la profondità di campo (alcuni interni giorno sia in Ford che in Ferrari sembrano ricordare il miglior Michael Mann – che qui, tra l’altro produce), la frenesia dei box formicai con l’ardimentoso statico posizionamento della mdp durante le corse proprio in relazione al movimento di piedi, pedali e auto. Le Mans ’66 obbliga lo spettatore alla suspense, mentre l’obiettivo è puntato sul contachilometri o sul contagiri, e lo costringe a percepire la mancanza di peso dell’automobile di Miles come fosse letteralmente sospesa a qualche centimetro da terra e delicatamente in derapage dopo l’ennesimo controsterzo. Bale supera come sempre l’intero cast dei film in cui lavora, offrendoci una prova maiuscola, muscolare e sporca, con quel suo sofferto fisico prosciugato e quello sguardo torvo e autistico. Miles nella realtà morirà qualche settimana dopo la 24 ore di Le Mans mentre testa un nuovo bolide Ford. Nel film viene raccontato tutto. Ed è un sottofinale delicato proprio alla Eastwood. Tutto fragili smargiassate e lacrime dignitose.