di Roberto Iannuzzi*
Da mesi ormai il Libano, uno dei paesi più indebitati al mondo, è alle prese con una crisi economica e finanziaria sempre più grave, ulteriormente complicata, a partire da metà ottobre, dallo scoppio di proteste di piazza che hanno portato alle dimissioni del governo.
Con migliaia di persone che hanno bloccato le strade del paese, le banche chiuse per giorni insieme a scuole e università, la lira libanese in caduta libera sul mercato nero e una paralisi politica aggravata dalla crisi di governo, il paese rischia di sprofondare nel baratro.
Le origini dell’attuale crisi finanziaria vanno fatte risalire alla fine del secolo scorso, quando la banca centrale e il ministero delle finanze del governo guidato da Rafiq Hariri, padre dell’attuale premier dimissionario Saad, decisero di ancorare la valuta libanese al dollaro. Il Libano venne così a possedere una valuta sopravvalutata rispetto alla reale capacità produttiva del paese. Ciò permise ai libanesi di mantenere livelli di vita più elevati rispetto a quelli dei paesi arabi vicini, ma al prezzo di un progressivo indebitamento dello Stato.
Per finanziarsi, quest’ultimo finì per dipendere in misura sempre maggiore dalle rimesse provenienti dall’estero, in particolare dalla diaspora libanese nel Golfo. Non essendo sufficiente, questo schema dovette essere ulteriormente rafforzato da finanziamenti elargiti dai governi occidentali e del Golfo.
Nel 2002, Rafiq Hariri organizzò una conferenza di “donatori” a Parigi (a cui avrebbero fatto seguito molte altre), dove l’Arabia Saudita si pose alla guida dei paesi del Golfo nel fornire aiuti finanziari. Riyadh divenne in pratica il garante di ultima istanza del sistema finanziario libanese. Hariri, che aveva fatto fortuna nel regno saudita durante il boom petrolifero degli anni 70, era a tutti gli effetti l’uomo di Riyadh in Libano.
Coniugato con un sistema politico basato sulla spartizione settaria del potere e controllato da una manciata di famiglie (in buona parte eredi dei signori della guerra che combatterono la guerra civile del 1975-1990), questo meccanismo diede vita a un’economia fondata sulla corruzione e su una diseguale spartizione delle risorse. Il livello di disuguaglianza nel paese si rispecchia nel sistema bancario, dove l’1% dei correntisti possiede il 50% del valore dei depositi.
I principali sconfitti di questo regime politico-economico sono i giovani, il cui tasso di disoccupazione si aggira intorno al 40%. Essi sono dunque spinti a cercare lavoro all’estero per poi rimandare in patria gli introiti del proprio lavoro, contribuendo ad alimentare un meccanismo che alcuni economisti hanno paragonato a un “Ponzi scheme”.
L’assassinio di Rafiq Hariri nel 2005 fu la prima di una serie di crisi politiche che misero a dura prova la tenuta finanziaria di questo fragile sistema. Sia in quell’occasione che nella guerra del 2006 tra Israele e Hezbollah, movimento sciita alleato dell’Iran e affermatosi negli anni come il principale gruppo armato nel paese, Riyadh accorse a sostenere le disastrate casse libanesi. Gli aiuti sauditi avevano una motivazione politica. Dopo l’uccisione di Hariri, l’appoggio del regno andò alla coalizione del “14 Marzo”, un insieme di forze guidate dal figlio Saad, le quali si opponevano all’influenza siriana e iraniana in Libano.
Più di recente l’andamento della guerra nella vicina Siria, che ha visto il presidente Assad sopravvivere al tentativo di rovesciamento orchestrato dai ribelli e dai loro sostenitori regionali e internazionali, ha però modificato gli equilibri politici libanesi (oltre a incidere pesantemente sull’economia del paese con l’afflusso di più di un milione di profughi e con mancati introiti pari al 3% del Pil nel solo 2014, secondo stime della Banca mondiale). Saad Hariri ne è uscito indebolito, anche per l’incrinarsi del suo rapporto con i sauditi, mentre Hezbollah ha assunto una posizione di rilievo nel governo.
Sbagliano tuttavia coloro che in Occidente hanno descritto le attuali manifestazioni di piazza come una rivolta contro Hezbollah e il suo alleato iraniano. Le proteste sono indirizzate contro l’intero arco delle forze politiche, la cui corruzione ha portato il Libano sull’orlo del collasso economico. In un sistema finanziario come quello libanese, che continua a essere dominato dai paesi del Golfo e dall’Occidente, il ruolo di Hezbollah e dell’Iran rimane marginale, malgrado il ruolo di spicco giocato dal partito sciita libanese nel governo.
Interpretare le manifestazioni come una “rivoluzione per disarmare Hezbollah”, come ha fatto l’ex ambasciatore americano in Siria Frederic Hof (tutt’altro che una voce isolata nel propagandare questa tesi a Washington), non è solo fuorviante ma pericoloso, perché reintroduce proprio quell’elemento settario che finora è stato assente dalle proteste libanesi.
Strumentalizzare la crisi, sovrapponendo il piano dello scontro Usa-Iran al già intricato quadro economico e politico interno, la rende di ancor più difficile risoluzione ed espone il Libano a quel perverso gioco di ingerenze che otto anni fa ha sprofondato la Siria nell’abisso.
* Analista di politica internazionale, autore del libro “Se Washington perde il controllo. Crisi dell’unipolarismo americano in Medio Oriente e nel mondo” (2017).
@riannuzziGPC