di Raffaella Arena*
Nel 2016 i ragazzi di Africa Unita, Abdel, Moussa e Lucien – eritreo il primo, ivoriani gli altri due – si sono conosciuti a Catania, nello spiazzo sottostante la fontana del ratto di Proserpina, nel lembo più orientale della piazza della stazione. Quando li incontro, in un caldo inizio di ottobre in cui l’estate si sofferma insistentemente sulla città, la fontana è senz’acqua. La poca rimasta è verde per le alghe e alcuni turisti dell’Est riposano là sotto bevendo un tè in lattina.
Quando arriviamo io e Flore Murard – responsabile della comunicazione del programma PartecipAzione – Abdel, che porta degli occhiali con lenti fumè e dimostra modi decisi ma gentili, sta fotografando con il cellulare i documenti di Sami, un libico che è appena uscito dal carcere di piazza Lanza. Scoprirò nel pomeriggio che è una delle persone inserite nel progetto Rifugiati protagonisti.
È stato quel giorno di tre anni fa, in questo spiazzo spelacchiato attorno alla fontana, che è germinata l’idea alla base di Rifugiati protagonisti, come mi raccontano Lucien e Moussa, per i quali questo luogo è un simbolo. Lucien indossa una maglietta verde e, mentre mi parla con un italiano sussurrato, il suo sguardo spazia: “Quando arrivi non hai un soldo, un posto dove andare e non conosci il luogo in cui sei. Ti ritrovi su questo terriccio abbandonato, con le tue poche cose radunate attorno.” Anche a loro tre è capitata la stessa cosa e sanno che questo slargo è il posto in cui si arriva e da cui si parte.
Mi guardo in giro. A Catania, ad inizio ottobre, ci sono ancora 30 gradi e un sole abbagliante. Mentre ascolto Lucien, dietro di lui vedo una coperta di lana marrone, avvolta fra le foglie di un banano. Questo spiazzo polveroso, a due passi dal mare, è il dormitorio dei migranti. In questo momento, a Catania, l’unico ufficiale è quello della Caritas e possiede solo 15 posti letto.
Anche se non fa strettamente parte del progetto Rifugiati protagonisti, i ragazzi di Africa Unita hanno molto a cuore questo problema. “Se non hai dove andare a dormire la notte, finisci a San Berillo. E, con buone probabilità, cadi nello spaccio”. San Berillo è lo storico quartiere a luci rosse di Catania. Negli anni 90 la sua storia si intreccia a quella dei flussi migratori.
La sera precedente all’incontro con i ragazzi di Africa Unita, ero andata a riguardare il loro sito e avevo letto cosa si propone il progetto: “Rifugiati protagonisti” prevede un percorso di formazione per 12 richiedenti asilo e rifugiati. Include diversi incontri su tematiche legali quali procedure di richiesta di asilo, di ottenimento del permesso di soggiorno e di educazione alla salute; e anche un tirocinio pratico, che vedrà i beneficiari operare a supporto di loro pari. Al fine di rafforzare i cosiddetti meccanismi di community protection, sarà inoltre realizzato dagli stessi rifugiati un laboratorio di community building nel quartiere di San Berillo.
E proprio a San Berillo, nel pomeriggio, incontro Ahya, Fatima, Mercy, Sami e gli altri rifugiati scelti per il progetto. Pur avendo vissuto la maggior parte della mia vita a Catania, è la prima volta che mi avventuro in questo quartiere che un tempo faceva da cerniera fra la città e la stazione. Con Abdel accanto percorro stradine fiancheggiate da muri grigi, dipinti di street artist, case diroccate e porte murate. Dietro lo sguardo pigro e attento delle prostitute affacciate sulle porte, entriamo a palazzo de Gaetani, sede di Trame di quartiere, un’associazione che si occupa di rigenerazione urbana e partner di Africa Unita nel progetto. Qui si terrà uno degli incontri di training.
In questo luogo abitato da stranieri, prostitute e senza tetto, il lavoro di empowerment previsto da Rifugiati protagonisti si colloca in una prospettiva più ampia. Trame di quartiere, così come Africa Unita, si occupa sostanzialmente di dare voce a chi non ne ha e l’attività all’interno di uno spazio pubblico degradato può servire a creare una comunità nata da un lavoro di collaborazione.
A fine serata, dopo aver ascoltato le storie di queste donne e di questi uomini partecipanti al progetto, io Flore e Abdel ci fermiamo ancora a chiacchierare su una panchina di piazza Falcone, sotto a dei piccoli alberi di Giuda in fiore. “Rifugiati protagonisti mira a formare delle persone che possano aiutare un richiedente asilo – dico ad Abdel – ma oggi abbiamo parlato di accoglienza, di dormitori, di posti in cui fare una doccia: cose che vengono ancora prima della decisione di una commissione.”
Abdel mi interrompe: “Si, è vero, il permesso di soggiorno è tutto per un rifugiato. Ti permette di esistere. Ma avere un posto dove stare e una residenza da indicare è basilare. Noi stiamo formando delle persone che saranno le colonne della nostra futura comunità di rifugiati: dobbiamo insegnare loro anche i rudimenti.” Abdel sorride.
Apprendo che la sera precedente, mentre io sbirciavo il sito dell’associazione, Africa Unita si è affiancata ad un evento organizzato dalla Cgil, lanciando una sua iniziativa: il “salone di quartiere”, un luogo di accoglienza e di aggregazione, con un punto di informazione per i richiedenti asilo politico. Un’alternativa allo spiazzo sotto alla fontana di Proserpina.
*Raffaella Arena scrive racconti e vive a Catania