Società

Non possiamo concepire i vivi senza i morti. Ed è questo ad animare Cristina Cary

Dicono che sono un narcisista, eppure quando mi specchio vedo sempre il volto di un altro: forse è questo il mio segreto, l’ingrediente che mi permette di raccontare gli altri. Mi pare di avere già detto che non mi considero un regista ma un presentatore, con i miei ritratti filmati vi presento degli esseri umani. Cristina Cary mi è stata presentata da un’ombra, l’ombra di un poeta defunto: Gigi Taranto.

Cristina Cary è stata la ragazza di Gigi e mi ha scritto dopo avere visto il film che ho dedicato a Gigi. Dobbiamo il nostro incontro a un’ombra: c’è nulla di più poetico? Non siamo forse ombre che seppelliscono ombre? Penso al tempo che passa e divora ogni cosa, e quando mi chiedono perché faccio film, rispondo: “Per salvare le persone dall’oblio”. A me non va giù, non mi è mai andato giù questo fatto o misfatto che a un certo punto si sparisca. Così, puff, come il trucco di un illusionista, e che poi si dica: quella persona è scomparsa.

No, io mi ribello. Mi ribello alla polvere. Agli acari, alla tirannia dell’acaro. E faccio ritratti, come i pittori; solo che ho la videocamera. E allora sono andato a casa di Cristina, ho bussato alla sua porta – bussate e vi sarà aperto. Infatti Cristina mi ha aperto, e mi ha offerto la sua intimità, prima ancora del tè con i pasticcini. I ricordi si lasciano appendere alle pareti; ho passato in rassegna le sue fotografie, una delle più preziose la ritrae insieme a Pierre Restany, tra i più acuti critici d’arte francesi. Ma chi si ricorda oggi di lui?

Il tempo passa e ci macina, ma noi testardi lottiamo e lasciamo segni della nostra presenza: quadri, poesie, film, figli, baci e morsi. Archeologi dell’attimo, indaghiamo, scaviamo nel flusso. Cristina è stellare, cosmica; volteggia nel corridoio di casa sua, ascolta la musica delle sfere, ogni volta che cambia cappello cambia anche la testa. Lei è metamorfica, ossimorica, la sua arte pesca nelle officine abbandonate e solca il brivido latteo delle galassie, una turbina e un buco nero per lei sono strumenti di lavoro.

Radicata alla terra, ma nello stesso tempo risucchiata da vortici celesti. Si aggira come una vestale scalza tra gli ingranaggi della civiltà, raccoglie oggetti abbandonati, traditi dall’uso, e dona una nuova vita, una nuova pelle all’inerte, all’inutilizzato, al rifiutato. Anche Cristina si ribella al tempo che divora e macina e toglie e dimentica, anche lei lotta contro qualcosa e per qualcosa; sente la presenza di angeli nel raschio ferrigno delle fabbriche. Anche la fabbrica è destinata a diventare fantasma, pallida evanescenza, tamburo meccanico sepolto nel silenzio.

Così ci sono le lotte sindacali per migliorare la vita che accade ogni giorno, e poi ci sono le lotte degli artisti come Cristina Cary, non per migliorare la vita dei lavoratori ma per salvare l’anima dei luoghi; non l’accadere ma l’accaduto, salvarlo e amarlo. Noi siamo ogni cosa e ogni cosa è in noi: il cristallo e la pantera, il brivido e l’assoluto, l’incidente e il percorso; ma non siamo incidenti di percorso. Questa è la radice guizzante che anima i lavori di Cristina: non puoi concepire i viventi senza i morti e viceversa, e chi si dimentica dei morti non fa che dimenticare se stesso.

Quando scopriremo che siamo noi gli alieni? Siamo noi che precipitiamo ogni giorno sulla terra e la vita è venuta dalle galassie, trasportata dalle comete, a dissetare l’ignoto e la scaturigine. Cristina Cary sa di essere un’aliena che calpesta la terra, una donna pesce che canta alle stelle e che non ha paura di amare le ombre.