“Scrivo queste parole da una cella in carcere. Ma non sono in carcere. Sono uno scrittore. Non mi trovo né dove sono, né dove non sono. Io faccio una magia. Passo attraverso i muri”. Ahmet Altan scrisse queste parole da un istituto penitenziario di massima sicurezza in mezzo al deserto in Turchia. Giornalista e scrittore di fama mondiale, era stato condannato a una pena di dieci anni e mezzo di detenzione dopo un processo-farsa. L’accusa era quella di aver cospirato contro lo Stato, nel 2016, insieme al presunto golpista Fethullah Gülen.
Le prime fasi dell’esperienza dietro le sbarre Altan le ha raccolte in un libro, un manifesto di fantasia e libertà che in Italia è stato tradotto col nome, evocativo, di Non rivedrò più il mondo. E chissà che non avesse ragione. A inizio novembre lo scrittore sessantanovenne è stato scarcerato su decisione del Tribunale d’appello di Istanbul salvo ricevere, questa settimana, un nuovo mandato d’arresto. Amnesty International ha definito la vicenda “sconvolgente e ridicola”, perché contro Altan non è stato prodotto “uno straccio di prova”. La sua colpa, tradotta senza mezzi termini, è di essere uno degli intellettuali più influenti e critici di Recep Tayyip Erdogan in Turchia. Il reato, detto altrimenti, è il reato d’opinione.
Della vicenda di Altan, in Italia, si è parlato pochissimo. Così come sono rimasti nell’ombra altri fatti accaduti negli ultimi sette giorni in Turchia. Ad Ankara 18 studenti e un accademico si sono trovati davanti alla sbarra per aver partecipato a maggio al gay pride della Middle East Technical University, soffocato dalla polizia con gas lacrimogeni e spari di proiettili di plastica (le immagini sono abbastanza impressionanti). Gli imputati rischiano tre anni di carcere (un ragazzo cinque per aver offeso un pubblico ufficiale) e anche in questo caso il processo è stato definito dalle organizzazioni non governative che si occupano di diritti umani come una “farsa”.
C’è dell’altro: mentre scrivo, il numero dei sindaci filo-curdi fatti arrestare da Erdogan nel sud-est della Turchia è arrivato a 30. Anche qui l’accusa, pretestuosa, è quella di aver legami coi “terroristi del Pkk”. Il partito filocurdo Hdp (Partito democratico dei popoli), che in Parlamento conta 67 rappresentanti, ha bollato la mossa del governo come un “golpe”. Al posto di 24 primi cittadini sarebbero infatti subentrati 24 commissari inviati da Erdogan mentre in sei casi, addirittura, i sindaci eletti sarebbero stati sostituiti da esponenti dall’Akp, il Partito della giustizia e dello sviluppo del presidente turco.
Eppure, a fronte delle continue violazioni di diritti civili e umani e a fronte del fatto che la Turchia si stia via via trasformando in una dittatura, Erdogan sembra godere, come mai prima d’ora, del favore incondizionato delle maggiori potenze mondiali.
In settimana è stato ricevuto da Donald Trump, negli Stati Uniti. Incontri, alla Casa Bianca, che generalmente hanno due scopi. Da una parte, ricompensare un alleato per aver fatto qualcosa di buono; dall’altra, invece, cercare un compromesso su questioni conflittuali. Ed ecco cosa è successo: Trump, pubblicamente, ha detto di essere “un grande fan” di Erdogan. Alla luce di quanto accaduto dal 9 ottobre scorso, e cioè dalla seconda invasione della Siria da parte dell’esercito turco, la frase del presidente degli Usa può avere due significati differenti ma non contraddittori. Primo: legittimo il tuo attacco nel Kurdistan siriano, non ti ostacolerò (atteggiamento, peraltro, già dimostrato dai fatti). Secondo: grazie per avermi permesso di uccidere il leader dell’Isis, Abu Bakr al-Baghdadi. L’altro aspetto da tenere in considerazione dopo il vertice tra i due presidenti – e qui veniamo alla questione del “compromesso” – è l’impegno, espresso da Erdogan, di acquistare anche il sistema difensivo (americano) Patriot. Scrivo “anche” perché il Sultano ha confermato, contestualmente, di non voler rinunciare al tanto discusso sistema difensivo russo, l’S-400 (farlo, ha dichiarato, sarebbe “una violazione della sovranità turca”).
Come si può notare, Erdogan sta giocando due partite. E lo sta facendo bene. Gode del favore di Trump, interessato unicamente a farsi rieleggere alle prossime presidenziali, e gode del favore di Vladimir Putin, a cui sta comprando i missili per due miliardi di dollari (ricordo, qui, che la Russia resta una “potenza povera”, con un Pil nettamente inferiore al nostro). Fuori dai giochi, come sempre, l’Europa: troppo debole, troppo divisa, senza un esercito comune e col terrore di dover gestire i profughi presi in carico dalla Turchia grazie ai fondi di Bruxelles.
Ma è da casa propria, dove si è levata l’indignazione per il nuovo arresto di Ahmet Altan, che possono arrivare i maggiori grattacapi per Erdogan. Nelle elezioni locali di marzo il presidente ha perso Ankara, Istanbul e le cinque province più popolose. Il Paese è entrato in recessione tecnica, la disoccupazione è salita, a luglio, al 13,9% (10,8% nel luglio del 2018) mente quella giovanile è al 27,1% (19,9% nello stesso mese dell’anno precedente). Ed ecco spiegata la mossa di una nuova operazione militare: unire il Paese nel nome di un comune nemico. Durerà?