Una delle emozioni che più fanno soffrire l’essere umano è quella collegata al “disincanto”. La parola disincanto significa letteralmente “liberarsi da un incantesimo, una magia” quindi rappresenterebbe, apparentemente, una tappa evolutiva dell’essere umano verso la consapevolezza del mondo o di se stesso. Nella realtà concreta delle persone di tutti i giorni spesso si manifesta, invece, come una sorta di caduta da una visione del mondo nella quale si credeva a una realtà fredda e sgradevole in cui si vive, dominati dai propri bisogni primitivi, senza più illusioni.
Una signora ha vissuto 30 anni col marito, accudendolo e viziandolo. Sapeva che lui era un debole, ma forse lo amava ancora di più per questa sua fragilità. Lei si occupava dei figli, della casa, dei suoceri e dei genitori per preservare lui da queste incombenze che lo avrebbero distolto dalla sua attività. Di famiglia ricca, lei lo ha sempre supportato economicamente nelle sue velleità lavorative e sociali. Ora lui, da pochi mesi, l’ha lasciata per una ragazza più giovane. Come spiegazione le ha detto che questa ragazza “mi fa sentire importante, perché ha bisogno di me. Tu, al contrario, sei forte e di fianco a te mi sento una nullità”.
Un’avvocatessa di 40 anni ha lavorato per 15 anni in uno studio di colleghi dove tre soci hanno sempre gestito i rapporti coi clienti. Lei ha svolto un lavoro di istruttoria, studio, redazione delle memorie che la impegnava circa dieci ore al giorno. Con tutti e tre i soci aveva un rapporto molto amichevole e una frequentazione intensa, anche personale. In particolare con una di loro, forse perché, donna come lei, si era instaurata una grande confidenza e comunanza di momenti familiari e sociali.
Ora che il socio anziano, all’età di 76 anni, deve smettere l’attività a seguito di un ictus, l’avvocatessa si aspetta di entrare al suo posto. Finora lei è stata pagata come libera professionista con fatture mensili, anche se in realtà era una vera e propria dipendente dello studio. Lo stipendio che riusciva a ottenere era basso per il lavoro svolto, ma le andava bene perché il suo progetto era quello di essere associata nello studio dove gli introiti sono veramente consistenti. Da quattro mesi si rivolge una volta al mese alla socia/amica con cui ha confidenza, chiedendo un incontro in cui si definisca la sua associazione allo studio, ma ormai ha capito che i due soci rimasti non hanno alcuna intenzione di renderla partecipe dello studio. Vogliono, insomma, continuare a sfruttarla.
Un ragazzo, dopo la laurea in archeologia, ha lavorato per quattro anni gratuitamente per un professore. Ha scritto un libro completamente da solo ma, nel momento della pubblicazione, il professore lo ha fatto suo, mettendo il nome del ragazzo fra i collaboratori.
Qualche lettore penserà che queste tre persone sono dei “coglioni”, a dispetto delle indubbie capacità intellettuali, in quanto si sono illusi che il loro impegno e la loro dedizione venisse ripagata, mentre nella realtà homo homini lupus. Per certi versi può essere vero che siano stati ingenui, ma ritengo altresì che, almeno, siano stati felici di vivere per anni con un progetto, un sogno, forse un’illusione. Ora il grande rischio è che il disincanto si impadronisca di loro, facendoli umanamente inaridire. Potrebbero addirittura divenire come i loro interlocutori: gente che per i propri bisogni non disdegna di ferire umanamente a morte gli altri.
Nella Bibbia l’Essere Supremo prende della polvere e modella l’uomo, per poi alitare dentro questo grumo di fango e dare la vita. L’uomo quindi, secondo questa visione, è un misto di cose belle e sgradevoli. I bisogni primitivi a volte prevalgono con paure del domani che spingono l’uomo ad essere avido, aggressivo, prevaricatore e crudele. Permane in lui però l’alito di Dio che permette slanci e progetti meravigliosi. Il rischio di chi soffre dopo un “disincanto” è quello di cadere in un incantesimo uguale e contrario: credere che bisogna essere avidi, crudeli, aggressivi, prevaricatori per poter essere felici. Anche questo è un “incantesimo”.
Voglio finire con un paragone, forse azzardato, con la politica. Molte persone mi paiono affette da una sorta di “sindrome da disincanto”. Hanno creduto in qualche idea politica o sogno partitico per cambiare in meglio il mondo. Ora affermano di non credere più in nulla, ma in realtà subiscono l’incantesimo di chi solletica i loro bisogni più primitivi all’egoismo e alla prevaricazione sui deboli.