L’allagamento di Venezia apre una fase nuova nella sensibilità della popolazione e allarga un solco più profondo nei confronti di quella politica che ha sempre negato l’emergenza climatica, magari cercando nei migranti o nella difesa dei confini la panacea alla crisi più profonda dal dopoguerra e, forse, della storia dell’umanità. Il futuro batte alla porta dei sordi rinchiusi nelle stanze del potere, ossessionate da un presentismo irresponsabile. E non si tratta di un futuro da 0,2% più o meno del Pil.
In un post di un anno fa avevo ammonito sulla perdita di siti di valore inestimabile come Venezia e Aquileia per l’innalzamento dei mari e avevo ricevuto commenti spesso irridenti. La realtà è stata perfino più crudele dei timori avanzati. Oggi l’urgenza si sta tramutando in un tempo che viene a mancare.
In uno studio pubblicato da Nature Climate Change e riportato in sintesi dal Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici, studiosi di grande serietà proiettano i loro modelli su due aspetti fin qui poco analizzati: il decremento di produttività complessiva (lavoro e natura) dovuta al clima e l’effetto importante che ne ricade sulla stabilità del sistema finanziario.
Viene stimato che il Pil nelle regioni italiane da qui alla seconda metà del secolo, differenziato a seconda della latitudine, avrà un rallentamento della crescita di meno 8 punti (sette volte il rallentamento stimato oggi dagli economisti!) mentre si registrerà un incremento ulteriore delle disuguaglianze economiche tra Nord e Sud.
Massimo Tavoni e Francesco Bosello, coautori del rapporto, dimostrano l’affidabilità delle loro previsioni: “Disponiamo di una risoluzione spaziale molto più dettagliata, nell’ordine di 100, 50 o addirittura di 10 chilometri quadrati come in questo studio, anziché riferirsi a medie nazionali. Combinando i dati economici con i dati climatici, entrambi ad alta risoluzione spaziale, possiamo comprendere la relazione storica tra temperatura e crescita economica a livello di cella geografica”. E già adesso sappiamo che è ben diverso abitare a Varese o in Liguria o nella laguna veneta…
In base a un’analisi dettagliata, se ne ricava che la temperatura ottimale per l’economia del Paese, quella che consente di massimizzarne la performance economica, è 11,5°C: già oggi in alcune regioni la temperatura media supera tale valore e lo supererà sempre in misura maggiore, comportando una riduzione della produttività e della crescita economica, come conseguenza degli impatti dei cambiamenti climatici.
Per effetto dei cambiamenti climatici, i fallimenti delle banche diventeranno in futuro sempre più frequenti, mentre la finanza pubblica dovrà sostenere costi sempre più elevati per salvare le banche insolventi, con un’esplosione del debito pubblico. Le crisi finanziarie hanno certamente ripercussioni sull’economia, perché causano una riduzione della produzione e dei consumi, ma anche sulla finanza pubblica, per un aumento dei costi necessari alla ristrutturazione del sistema finanziario da parte dei governi.
Il cambiamento climatico e gli eventi estremi ad esso associati come alluvioni, frane, innalzamento del livello del mare e tempeste possono, per esempio, aumentare le infrastrutture a rischio e ripercuotersi negativamente sulle compagnie assicurative, per effetto dell’innalzamento dei premi. Per le stesse imprese aumenterebbero le insolvenze, che, riverberate su scala globale, come quelle sperimentate nel corso della crisi finanziaria del 2008, costringerebbero i governi a intervenire.
Lo studio di Nature per la prima volta prova a quantificare tale effetto: i fallimenti delle banche in futuro sarebbero, a causa dei cambiamenti climatici, più frequenti (da +26% fino a +248%); salvare le banche insolventi comporterebbe un costo per i governi pari a circa il 5-15% del Pil all’anno, portando a un’esplosione del debito pubblico, che potrebbe arrivare a raddoppiare nel 2100. I due fattori esaminati suggeriscono di concentrare gli sforzi sul raggiungimento delle emissioni zero nette globali il più rapidamente possibile.
Proprio in questo contesto il 14 novembre la Bei ha deciso una nuova politica di prestiti energetici, ponendo fine al sostegno a progetti di combustibili fossili (compreso il gas naturale) alla fine del 2021. La nuova politica energetica non era riuscita a ottenere sostegno in una prima discussione in ottobre, con Paesi come la Germania – divisa tra i vari ministeri – e l’Italia compattamente contro. Per queste contrarietà, la data definitiva è stata spostata dal 2020 al 2021.
Ungheria, Polonia e Romania hanno votato contro la nuova politica. Cipro, Estonia, Lituania e Malta si sono astenute tutte per mancanza di flessibilità sul gas. Austria e Lussemburgo hanno escluso il voto a causa di ciò che hanno percepito come una linea di apertura all’energia nucleare. E’ interessante questa dislocazione, perché dice quanto e perché la partita sia aperta. Ma come farà il governo italiano a sostenere ancora l’utilità del gasdotto Tap e la riconversione a gas della centrale a carbone di Civitavecchia, contro un ordine del giorno votato all’unanimità dal Consiglio Comunale?