Nel 1951, intrufolato tra le torme di italiani che salpano speranzosi alla volta del Venezuela, c’è anche Pompeo D’Ambrosio. Originario della Campania e nipote dell’ex podestà di Salerno, ha alle spalle una discreta carriera militare, ma a Caracas si trasforma in un imprenditore di successo. Diventa dirigente del Banco Francés y Italiano, fonda associazioni volte a favorire l’integrazione degli italiani nel tessuto sociale venezuelano, ma soprattutto riesce a mettere le mani sul Deportivo Italia, la piccola squadra fondata nel 1948 dalla comunità italiana della capitale venezuelana. Sono gli anni del cosiddetto Fútbol Colonial. Quasi ogni squadra è l’espressione calcistica di una comunità. Nascono formazioni portoghesi, basche e catalane, ma ad emergere più di ogni altra è il Deportivo Italia, oggi rinato con il nome di Petare. Sotto la gestione della famiglia D’Ambrosio, gli Azules cominciano la scalata ai vertici del calcio venezuelano, facendo incetta di trofei in patria e partecipando con una buona costanza alla Copa Libertadores. Non mancano nemmeno le imprese memorabili, come quella compiuta nel 1971 quando il Deportivo Italia partecipa alla Copa Libertadores da vicecampione nazionale. Con zero punti in classifica dopo due sconfitte, gli Azules sono attesi dalla trasferta del Maracanã con la Fluminense, che all’andata in Venezuela ha passeggiato, vincendo con un punteggio tennistico (0-6).
Il 3 marzo 1971, in un Maracanã quasi deserto per i suoi standard, il Deportivo Italia sembra essere rassegnato al ruolo di vittima sacrificale e scende in campo con l’unico obiettivo di limitare i danni. Tutti si aspettano la goleada, tanto che la spavalda stampa brasiliana snobba la sfida, dileggiando incautamente e molto poco elegantemente la comitiva venezuelana. Del resto il Tricolor carioca è una corazzata. Agli ordini di Mário Zagallo ci sono diversi campioni: gente come l’inesauribile Marco Antônio, l’anarchico Lula e l’artilheiro Flavio Minuano. Senza contare Cafuringa, un satanasso instancabile dalla pelle d’ebano e dalla capigliatura eminentemente afro, protagonista assoluto dell’ultimo successo in campionato del Tricolor. Sulle sue tracce, incaricato di francobollarlo nel tentativo di porre un argine a quel fiume in piena di talento e dribbling, il tecnico degli azzurri Elmo Correa sguinzaglia il ruvido e scafato Vicente Arruda. L’impostazione tattica dettata dalle circostanze appare chiara: arroccarsi in massa a cavallo della propria area di rigore, intasare le linee di passaggio, e provare a cogliere di sorpresa i brasiliani in contropiede, ma solo quando il momento è davvero propizio. Come accade al 71′, quando dopo un’ora abbondante di trincea e sofferenza, il Deportivo Italia trova il coraggio di uscire dall’angolo per contrattaccare. E segnare. Militello s’invola come un proiettile verso la porta, è pronto per calciare a botta sicura, quando il portiere della Flu, Vitorio, lo arpiona, atterrandolo a due passi dall’area piccola: calcio di rigore solare. Manuel Tenorio sente addosso il peso della storia, ma dal dischetto è una sentenza: 0-1. Sul Maracanã piomba un silenzio di ghiaccio. I venezuelani non ci possono credere.
Ma la parte complicata arriva proprio adesso. Carlos “Chiquichagua” Marín, un elegante difensore strappato al baseball, sta già immaginando il futuro, che non pensa sarò proprio roseo: “Ora ce ne fanno dieci”, ripete preoccupato nel tentativo di mettere in guardia i compagni fin troppo presi dalle celebrazioni. “Chiquichagua“, così come gli avanti Tricolor, ha però evidentemente commesso l’errore di sottostimare le abilità del portiere italo-venezuelano Vito Fassano. Nato a Bari e cresciuto in Argentina, dove i genitori erano emigrati in cerca di fortuna, era stato scoperto nel 1957 da Mino D’Ambrosio, braccio destro di Pompeo deputato ad occuparsi delle faccende tecniche, prima di conquistarsi la fiducia dell’allenatore a suon di miracoli. Nonostante non stia al meglio fisicamente, tanto da sciogliere le riserve sulla sua presenza in campo solo in extremis, Fassano abbassa la saracinesca e si esalta nell’opporsi al tiro al bersaglio portato avanti sempre più disperatamente dai brasiliani. Fassano sventa una dopo l’altra tutte le minacce, rivelandosi insuperabile, a tratti quasi onnipotente: “Non ho mai visto un portiere parare tanto come Fassano quel giorno”, ricorderà più tardi Marín magnificando la memorabile prestazione del portiere italo–venezuelano, apprezzato dallo stesso Zagallo e in futuro protagonista in Brasile con la maglia del Cruzeiro.
Grazie anche a lui il Deportivo Italia riesce a resistere sino al triplice fischio finale, diventando la prima squadra venezuelana ad espugnare un tempio del calcio brasiliano come il Maracanã, tanto che la stampa si diverte a parlare di Pequeño Maracanazo, in riferimento a quello ben più famoso del 1950. Contemporanamente a San Paolo il Palmeiras ha battuto il Deportivo Galicia, affiancando proprio la Fluminense in vetta alla classifica del gruppo. Come promesso, allora, il presidente del Verdão Hernani Pizarro è piombato negli spogliatoi del Deportivo Italia con una borsa piena di soldi e ha distribuito la ricompensa pattuita con i giocatori azules: ad ognuno il servigio indirettamente prestato al Palmeiras è fruttato l’equivalente di 250 bolivares, un’autentica fortuna per l’epoca. Intanto i giornali brasiliani hanno cambiato già opinione sul piccolo club della comunità italiana di Caracas: “Sembra una bugia, ma è la verità: ha perso il Fluminense“, titola all’indomani il quotidiano Ultima Hora. Un’altra medaglia da appuntare al petto degli Azzurri del Sudamerica.