Per due settimane di fronte a casa abbiamo avuto un cantiere per restauri sulla facciata di fronte. Per due settimane si sono sentite parlare solo lingue sconosciute. Nelle stesse due settimane nella via sottostante hanno corso i rider, senza luci e senza casco. E i raccoglitori si sono fermati tutti i giorni, pinze in mano, davanti ai cassonetti dell’indifferenziata. Nel mentre, nella piazzetta a fianco della casa, alla mattina si sono radunati gli slavi che hanno trascorso la notte all’addiaccio. Mi capita di parlarci scendendo con Camilla a farle fare pipì e mi raccontano in uno stentato italiano delle loro vite lontano dal paese dove non c’è lavoro. Perché, qui?
In questo orizzonte visivo ho letto, anzi, ho divorato “Ancora dodici chilometri”, l’ultimo libro di Maurizio Pagliassotti. Dodici chilometri sono la distanza che separa Claviere, Piemonte, Alta Val Chisone, da Briançon, al di là del confine. È la cosiddetta “rotta alpina” dei migranti. I media sono così attenti a quelli che sbarcano nel mare di Sicilia, quanto disattenti nei confronti di coloro che lasciano o tentano di lasciare l’italico suolo per calcare quello d’Oltralpe. Eppure sono sempre odissee, anche se le prime più mortifere delle seconde.
Maurizio è l’esatto opposto del cronista asettico. E’ un fiume in piena, non riesce e non vuole nascondere nulla dei suoi sentimenti di disgusto per questo mondo malato di sviluppo, lui che ha ormai digerito il concetto che la parola sviluppo ha un significante orrorifico. Lo sviluppo è un cancro. Ma è anche una sorta di circo Barnum. Maurizio si limita a restituirci la fotografia di ciò che ha visto durante le lunghe notti invernali: non ci dice cosa c’è a monte, cosa fa muovere migliaia di persone, se clima impazzito, perdita di terre, guerre, faide, o persecuzioni. Non ci dice neanche perché i migranti vedano in un paese in buona parte razzista come la Francia (che però tifa Mbappé) e ormai anch’esso alle prese con il problema del lavoro una sorta di àncora di salvezza.
La sua lente d’ingrandimento si concentra sul passaggio, sulla migrazione, sulle condizioni miserevoli (non povere) di chi attraversa e dei pericoli che corre. Una migrazione che non finirà, avverte Maurizio, anzi aumenterà negli anni perché, diciamolo, ci saranno sempre più vittime di questo capitalismo che raschia il fondo del barile. Capitalismo che ha illuso un mondo. Fino a 50 anni addietro gli sviluppisti potevano essere soddisfatti, non c’erano crepe nel muro, almeno apparenti. Mentre oggi il mondo è scoppiato: da quella Torino di Maurizio i marocchini già immigrati oggi tornano in patria per costruire devastanti linee ad alta velocità e campi da golf con villette a schiera per nababbi occidentali; a Torino non c’è più la Fiat e in generale il lavoro in Italia manca perché la globalizzazione l’ha delocalizzato in Cina o in India, dove si producono anche le felpe tarocche che indossano gli slavi con cui chiacchiero sotto casa.
La Cina nel contempo fa landgrabbing in Africa e costringe i nativi ad andarsene, causando proprio una parte di quella migrazione di uomini neri in cerca di un lavoro che alla fine, se lo troveranno, finirà con l’alimentare lo stesso sistema che li ha fatti fuggire. Un circo Barnum, dicevo.
Il flusso della rotta alpina è in realtà minimale a livello di Madre Terra. Ma paradigmatico e paradossale. Paradigmatico di un fenomeno che è ormai in ogni dove. Paradossale perché attira le antipatie di una moltitudine di altri esseri umani che godono a veder morire, ma anche una minima solidarietà di chi vede in quelle persone quello che sono: nostri simili. E spesso quelli che offrono solidarietà, guarda caso – ci ricorda Maurizio – sono proprio quei No Tav che si battono a poche decine di chilometri di distanza contro l’opera più inutile e devastante della storia d’Italia, perché in questa epoca di mancanza di lavoro bisogna trovare delle scuse per lavorare, costi quel che costi, e chissenefrega se anche ci vanno di mezzo i nostri figli. Purché lavorino i padri.
In questo clima spaesante, dove la bussola non trova il nord, così ben descritto con prosa appassionata e grande pietas dall’autore, Matteo Salvini continua a farsi dei video su un torrente di montagna o sotto la neve, inveendo contro quei migranti che toglierebbero il lavoro agli italiani, e i media glieli diffondono come un virus alimentando il suo già folto seguito di razzisti.
Salvini non leggerà mai il libro di Maurizio, e poi manco lo capirebbe, come non lo leggeranno i distratti gendarmi di confine o i vecchi al bar del paese che si domandano cosa cazzo vengono a fare qui i “negri”. Anzi, ad esser sinceri, fra un po’ in una società che tutto divora in un amen senza digerire non se ne parlerà nemmeno più, del suo libro. Ma resterà una grande testimonianza di civiltà in un mondo ingiusto.