Viva Albanese, insomma, ma basta Cetto. Grazie.
Meno Albanese per tutti. Cetto c’è, senzadubbiamente non fa ahinoi né ridere, né sorridere. E nemmeno divertire. Visto però che ad Antonio Albanese vogliamo bene, perché Alex Drastico ed Epifanio sono momenti indimenticabili di un evo storico del cabaret tv che teniamo custoditi nel cuore, gli chiediamo cinematograficamente di fermarsi. Cetto è un personaggio del grande schermo oramai vuoto, spompo, finito. Talmente infiocchettato, caratterizzato, e ancorato mani e piedi alla ciucca paraberlusconiana fin dall’inizio della sua creazione (Qualunquemente è del 2011; Tutto tutto niente niente è del 2012) che nel terzo tempo del 2019, dopo oramai otto anni di vita, è un po’ come entrato nel porto delle nebbie di quando “si rideva su Silvio”.
L’aggiornamento satireggiante del personaggio, anche se Cetto è fin da subito sembrato una maschera squagliata e slabbrata di una farsa più sbilanciata nella mente creatrice albanesiana, purtroppo fa acqua da tutte le parti. Il carpiato attorno al cosiddetto tema caldo del momento, il cosiddetto “sovranismo”, inteso in senso stretto, cioè con un sovrano costituzionalmente eleggibile ed eletto in terra di Calabria come fa Cetto nel nuovo film, è talmente forzato, talmente à la page con questa idea di riso intelligente che piomba dall’alto, che viene voglia di farsi una maratona di Giovannone Coscialunghe e Zaloni vari al più presto. Riprendiamo un filo di trama e poi aggiungiamo un paio di considerazioni finali. Cetto vive in Germania, sposato con una giovane e bella bionda, ha aperto dei ristoranti bianchirossieverdi dove ovviamente all’interno si balla la tarantella e si spara per aria. Capelli biondo platino alla Manfredi in terra teutonica, Cetto è vestito con sgargianti completini suddivisi nel tricolore, e quando ne hai già abbastanza della trovata cromatica, cioè dopo due minuti, semplicemente con completini sgargianti. Gli affari vanno a gonfie vele, ma una zia in Calabria sta per morire e lui parte subito al capezzale della moribonda.
Là viene edotto di una sua clamorosa discendenza da un principe borbone. Così il suo qualunquismo e la sua mafiosità culturale ed intellettiva verranno sfruttate da un ambiguo aristocratico (Gianfelice Imparato) che lo lancerà fino a diventare re del belpaese, costringendolo ovviamente a cambiare vita e abitudini quotidiane dentro ad un vero castello nobiliare. Le peripezie e gli strati di caratterizzazione che si accumulano sopra al Cetto originario strabordano e si trascinano stanchi in un ogni angolo di film – gli amici del bar che lo seguono ovunque, il figlio che sembra uscito da una piazza di sardine, i suoceri nazisti che ascoltano Wagner (o madonna, ma un’idea un po’ meno stereotipata anche nella farsa no?) – rendendo impossibile perfino un’idea di metafora primaria del film. Cetto in fondo si inabissa nel suo stesso “pilu”. Ripete in continuazione il tormentone del –mente come suffisso, ma è la storia, il film stesso, l’intera saga di Laqualunque a diventare un illeggibile, pesante ed inutile avverbio. Poi ancora, questa storia della satira “già trasformata in attributo del potere”.
Ecco, ad oggi novembre 2019, non ci risulta che il “potere” sia più in mano a satrapi populisti e ignoranti in almeno tre quarti di continente europeo. Per questo Cetto gira a vuoto sia per il refresh del Berlusca, sia per un non si sa bene quale riferimento all’attualità (Salvini? Di Maio? Renzi?), sia soprattutto perché non sa graffiare l’anima nascosta, qualunquista, qui in senso lato, degli italiani. Perché Cetto è una piumetta che non fa nemmeno il solletico a potere e potenti, un personaggio così pulito e convenzionale nella sua presunta scorrettezza culturale che, appunto, più che far ridere stanca. Chiaro che poi non si può nemmeno più parlare di regia, di messa in scena, tanto è sbilanciato il progetto/saga Cetto sul protagonista stesso. Cetto c’è, senzadubbiamente, semplicemente non esiste. E dire che Albanese è così bravo quando chaplinianamente accetta tragicomici omini da film drammatici (noi per L’intrepido ancora battiamo le mani), o si offre figuro realista un po’ fetente e terribilmente popolano ne La lingua del santo o in Giorni e nuvole, ma soprattutto quando si affida a registi un po’ più solidi (vedi Riccardo Milani con Come un gatto in tangenziale o anche in Questione di cuore) dove finalmente si ride con gusto di questi personaggi borghesi davvero insopportabili. Viva Albanese, insomma, ma basta Cetto. Grazie.