Certo, la carne rossa fa surriscaldare il pianeta, ma sostituirla completamente col pesce sarebbe devastante per l'ambiente marino. Così come a volte le fibre sintetiche sono più ecologiche del naturalissimo cotone. E attenzione alle "bioplastiche", meno riciclabili di quanto sembri. Inchieste e approfondimenti sul mensile diretto da Peter Gomez, nel numero dedicato agli "ipocriti sul carro di Greta"
Trentaquattro consigli precisi e praticabili per salvare il pianeta, da applicare facilmente alla vita di tutti i giorni. Ma anche tanti esempi di azioni e consumi che ci vengono spacciati per “green” e in realtà non lo sono. Perché bisogna fare attenzione ai luoghi comuni: non tutto ciò che è naturale inquina meno di quel che è “chimico”; non tutto quello che è riciclabile è per forza ecologico. E così via. Una guida per orientarsi fra il vero e il finto “verde” è offerta da FQ MillenniuM, il mensile diretto da Peter Gomez attualmente in edicola con un numero dedicato a “tutti gli ipocriti sul carro di Greta”.
Per esempio: sappiamo tutti che dobbiamo consumare meno carne rossa, dato che i bovini sono fra i principali produttori di gas serra e per fare un chilo di bistecche occorrono 15mila litri d’acqua. Ma sostituire in massa la carne con il pesce, spiegano gli esperti intervistati dal mensile, non è una scelta sostenibile, perché la pesca intensiva sta svuotando il mare e alterando gli ecosistemi marini. La soluzione è se mai «consumare pesce più stagionale e locale – per esempio sgombro e alici – evitando pesci in voga come tonno e orate», scrive Massimo Andreuccioli nel libro Origine animale. A proposito: giusto fare di tutto per risparmiare l’acqua del rubinetto, della doccia e -nei limiti – persino dello sciacquone. Ma ricordiamoci che molti cibi – come la citata carne rossa – prima di arrivare alla nostra tavola consumano molta più acqua di una vasca da bagno.
La dicitura “riciclabile”, poi, non deve metterci a posto la coscienza. Molti oggetti in “bioplastica”, per esempio, sono sì compostabili, ma con tempi assai più lunghi di una buccia di patata o un torsolo di mela, cosa che crea seri problemi in diversi impianti di trattamento rifiuti. E comunque anche riciclare costa e inquina (per esempio, nel trasporto), dunque la prima cosa da fare è ridurre la quantità di rifiuti che produciamo, evitando il più possibile l’usa e getta, anche se è riciclabile. Per esempio: che male aveva fatto la vecchia saponetta per essere sostituita su tutti i nostri lavandini da un flacone di plastica?
A volte, per essere sostenibili a tutti i costi si cade in trappola. Secondo voi è più ecologica la lavastoviglie o la cara vecchia spugnetta poggiata sul lavello? La prima, a patto di usare un ciclo “eco” e di farla andare di notte, impattando di meno sulla distribuzione elettrica. E ancora – ma molti più esempi si trovano nelle inchieste di FQ Millennium su questi temi, firmate da Elisabetta Ambrosi, Beatrice Manca e Franz Baraggino – occhio alla fascinazione del “naturale”. L’avocado è un frutto naturalissimo, ma da quando è diventato oggetto di una domanda globale – proprio in nome della salute e del “green” – l’impatto sull’ambiente delle zone di produzione è stato devastante.
Per non parlare dello shopping d’abbigliamento: «Non bisogna cadere nel tranello che tutto ciò che è naturale sia più bello o più buono per l’ambiente – avverte il professor Giuseppe Rosace, docente presso l’Università di Bergamo ed esperto di chimica tessile, intervistato da FQ MillenniuM – Non esiste una fibra ideale, tutte hanno un impatto ambientale. Il cotone, per esempio, dalla coltivazione al finissaggio richiede in media 10 mila litri d’acqua per ogni chilo di tessuto: significa che per un paio di jeans serve l’equivalente di 50 vasche da bagno». Il 20% dei pesticidi utilizzati a livello globale è destinato al solo cotone. «Le fibre sintetiche derivano dal petrolio, e nel lavaggio rilasciano microplastiche che finiscono in mare – prosegue Rosace – però hanno il pregio di essere estremamente performanti e facilmente riciclabili, più di altre fibre naturali».
Anche in questo caso, la chiave è consumare (e buttare) meno. La professoressa Ada Ferri, esperta in fibre ad alte prestazioni al Politecnico di Torino, ha stimato che negli Stati Uniti ogni capo viene indossato in media meno di cinquanta volte. In Europa, il doppio. Se in Cina all’inizio degli anni Duemila ogni capo veniva usato quasi 200 volte prima di essere buttato, oggi si arriva a 70-75 utilizzi.
Leggi le inchieste complete su FQ MillenniuM di novembre, ora in edicola