Nei giorni scorsi si sono tenuti due importanti convegni sul tema dei suicidi tra i militari e nelle forze di polizia. Il primo a Padova, venerdì 15 novembre, organizzato dalla Cgil e dall’Università degli Studi, dal titolo “Il fenomeno suicidiario. La crisi della persona negli ambienti lavorativi speciali”; e il secondo a Verona, sabato 16 novembre, promosso dal Sam (Sindacato autonomo militari), dal titolo “La tutela del personale e delle vittime: profili giuridici e tutela assistenziale”.
C’è indubbiamente maggiore sensibilità su questo argomento tanto che, secondo la Cgil, è necessario “accendere un faro sul fenomeno – queste le parole del Segretario nazionale Giuseppe Massafra – con una serie di iniziative su tutto il territorio nazionale”.
Entrambi gli incontri hanno visto la partecipazione di docenti universitari, sindacalisti, psicologi, sociologi e dirigenti pubblici. Siamo allora sulla strada giusta: per evitare ogni banalizzazione, il problema va affrontato con rigore scientifico. Sarebbe un grave errore, per esempio, “criminalizzare” il lavoro del militare o del poliziotto, sostenendo che esso induca al suicidio. Tuttavia, se è indubbio che la decisione di togliersi la vita ha sempre motivazioni complesse, non si può non riconoscere che talune dinamiche possano produrre o amplificare malessere e disagio psicologico: trasferimenti non graditi, lontananza da casa, difficoltà a conciliare i turni di servizio con la vita privata, retribuzioni inadeguate, sanzioni disciplinari sproporzionate, ecc.
Il lavoratore con le stellette, che ha giurato fedeltà alla Repubblica, si impegna a operare per il bene pubblico, accettando anche di affrontare molti sacrifici. Ed “è inammissibile – ha sottolineato a Padova Cristina Selmi, dirigente del ministero della Giustizia – che lo Stato lo abbandoni quando è in difficoltà”. Il militare, prima di essere un militare, prima di essere un lavoratore, è una persona con le sue fragilità e le sue paure. Forse, una delle difficoltà principali consiste proprio nel timore di confidarsi in un ambiente in cui è “vietato star male”. Ma indossare l’uniforme non ti rende “supereroe”, come ha scritto Sara Lucaroni su L’Espresso.
Va certo rifiutata quella tendenza a relegare il suicidio come una questione solo individuale. Invece si tratta di un “fenomeno sociale”, di una scelta privata che però interpella la responsabilità collettiva. Perché quel soldato si è tolto la vita? Cosa ha fatto la comunità per prevenire quel gesto estremo? Perciò risulta preferibile un “approccio sistemico” che accolga i contributi di tutta la società. Non si devono lasciar sole le singole amministrazioni. Al contrario, occorre promuovere un serio dibattito che coinvolta dirigenti, specialisti, sindacalisti e politici.
Lo scopo è quello di migliorare la qualità del lavoro e di scegliere i percorsi più adatti per i lavoratori che manifestino un disagio psicologico. Su questo fronte i nuovi sindacati militari contribuiranno a creare quelle condizioni di democrazia favorevoli a rendere le caserme più civili. Per questo, Giuseppe Massafra – a cui è stato affidato l’intervento conclusivo del convegno di Padova – ha chiesto con forza alla politica di approvare finalmente una buona normativa sui diritti sindacali dei cittadini in divisa.