Resta tutto dentro. Con il dolore fastidioso che vuole provocare, quasi vergognoso, perché così indegno. Furore è un’esplosione di parole, immagini, sonorità e – appunto – di dolore. Se la partecipazione allo spettacolo teatrale (in corso al Teatro India di Roma fino al 1 dicembre) è garantita dalla triade d’eccellenza Steinbeck/Trevi/Popolizio, il suo effetto non è scontato. Scriverne, come accade spesso rispetto alle opere teatrali, è riduttivo giacché il monologo interpretato da Massimo Popolizio sul testo di John Steinbeck del 1939 adattato da Emanuele Trevi supera l’oggettività di un testo – di cui già si conosce il valore – per andare a toccare soprattutto la soggettività coinvolta a livello profondo, che dunque supera l’emozionale.

C’è una forza tale nell’evocazione del tormentato esodo dei braccianti/migranti americani durante gli anni della Depressione da substanziarsi in un “hic et nunc senza fine”, piacevolmente scomodando gli ossimori. In altre parole, se è chiaro che le intenzioni della pièce siano di squarciare le coscienze sul presente – con ovvi riferimenti a certi popoli/individui ridotti in non dissimili situazioni – non era altrettanto evidente che oggettività e soggettività si sposassero con tale energia di fronte a questo spettacolo squisitamente politico, dall’impostazione semplice eppure dai meccanismi “interni” complessi e sofisticati.

Ormai confermatosi vate del teatro che parla alla, della e sulla contemporaneità senza mai esibirla, Massimo Popolizio (coadiuvato dalle percussioni live di Giovanni Lo Cascio) – anche regista dello spettacolo – si offre nella sua proverbiale gamma d’interpretazione sensoriale del testo arrivando – sul finale commovente – alla potenza del sussurro. Che è quanto più ci resta dentro. Spettacolo da non perdere dentro e fuori dalla sala, dove è esposta la mostra fotografica di Dorothea Lange e Walker Evans, The Grapes of Wrath.

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