Ieri a Roma il cielo era scuro di nuvole e senza benevolenza, soffiava vento ma nemmeno una goccia d’acqua è caduta sulle centomila donne che si sono trovate per dire basta alla violenza machista e alle discriminazioni quotidiane. Si parla ancora troppo poco di sfruttamento del lavoro di cura, precariato, disoccupazione che colpiscono in misura maggiore le donne e le mantengono in una condizione di povertà che le rende vulnerabili.
Il corteo si è mosso alle 15 da piazza della Repubblica dietro allo striscione “Contro la violenza siamo rivolta”, in testa le compagne di D.i.Re donne in Rete e dei Centri antiviolenza, seguite dalle donne che ogni giorno lavorano nei consultori. Molte si sono alzate alle prime luci dell’alba per essere alla manifestazione organizzata da Non una di meno.
Alcune manifestanti hanno indossato le maschere delle luchadoras per sostenere l’associazione Lucha y Siesta, che rischia lo sfratto e la chiusura del suo centro antiviolenza perché un’amministrazione cieca stenta a riconoscere valore culturale, sociale ed economico a un luogo che in 11 anni ha accolto 1200 donne vittime di violenza (oggi ne ospita 14). Era un immobile dismesso dell’Atac, uno spazio morto che è stato riportato in vita dalle donne e ora rischia di essere chiuso perché sarà messo in vendita, nel tentativo di sanare debiti di una cattiva gestione.
Se si aggrediscono i corpi delle donne si attaccano anche i loro spazi. Lucha y Siesta non è l’unico: anche il Centro antiviolenza Thamaia di Catania o la Casa delle donne di Viareggio sono a rischio di chiusura perché non ci sono ancora finanziamenti certi e il 25 novembre per le istituzioni pare essere solo un impegno di facciata. Non lo è per le donne che durante la manifestazione hanno sollevato cartelli in ricordo delle vittime di femminicidio o che hanno scandito slogan contro i femminicidi. E proprio il giorno prima della manifestazione, in Sicilia, Ana Maria Lacramioara Di Piazza è stata assassinata da un uomo con cui aveva una relazione: aveva 30 anni ed era incinta.
La gravidanza non protegge le donne da una violenza che non conosce confini e si consuma tra le pareti domestiche come nelle strade, nei luoghi di lavoro o in quei Palazzi che dovrebbero custodire i loro diritti e rispondere con giustizia alle iniquità. Nelle aule dei Parlamenti o dei Tribunali accade che si tradiscano leggi e convenzioni internazionali perché ancora è forte il paradigma patriarcale.
Solo un anno fa il ddl Pillon, oggi dormiente in un cassetto, malcelava il progetto politico di azzerare il diritto di famiglia che, riformato negli anni ’70, aveva garantito parità di diritti alle donne, riconoscendone il valore di cura. Oggi le donne che svelano violenza rischiano di trovare sulla propria strada i sostenitori della Alienazione parentale (Ap) se un figlio rifiuta il padre. L’accusa di Ap è una strategia che garantisce impunità e vendetta ai violenti perché il rifiuto del bambino – che nella maggior parte dei casi è conseguenza della violenza assistita – non viene indagato e ricade su coloro che hanno svelato la violenza.
Antonella Penati, Laura Massaro, Ginevra Amerighi sono le testimoni di arcaiche ingiustizie che si rinnovano, mentre i Centri antiviolenza denunciano vittimizzazioni insieme ai sindacati, alle giornaliste e ad alcune deputate. E i Palazzi? Si trincerano dietro le loro mura di gomma, tra ignavia e indifferenza, senza chiedersi cosa non funzioni nella Giustizia oggi.
Se il corpo delle donne è bersaglio di aggressioni simboliche che poi si concretizzano con violenze reali, l’arma della rivolta pacifica femminista è la parola che svela dinamiche di potere. Ieri si è manifestato anche in altre città europee e americane, perché a una violenza che attraversa i confini del mondo si deve contrapporre una rivolta pacifica che lega le une alle altre, attraversando quegli stessi confini. “Teniamoci strette” era l’invito che l’avvocata Manuela Ulivi, presidente della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano, ha rivolto alle donne, invitandole a rafforzare le loro relazioni contro il blacklash del patriarcato.
Anche ieri le donne si sono tenute strette. A metà del percorso, nei pressi dell’Ambasciata argentina, il corteo si è fermato per cinque minuti per stringere in un abbraccio corale El Mimo, Daniela Carrasco. Un “grido silenzioso” è stato dedicato alla donna torturata, stuprata e uccisa in Cile; il suo corpo è stato esposto dagli assassini impiccato ad una rete: un monito rivolto alle cilene che si stanno mobilitando contro la politica capitalista del presidente Sebastian Piñera e la sua feroce repressione.
Sulle strade sono rimasti 15 morti e migliaia di feriti per mano dei Carabineros. Si sparano proiettili di gomma sul volto dei manifestanti eppoi ci sono gli stupri per annichilire la ribellione delle donne. Ed è notizia di queste ore il ritrovamento del corpo della fotografa Albertina Martinez Burgos, trovata cadavere nel suo appartamento. Il suo computer è scomparso insieme alla macchina fotografica con cui la fotografa documentava le violenze dei Carabineros.
In Cile, come in ogni parte del mondo, lo stupro è la punizione per le donne che si mobilitano, prendono la parola e si rendono protagoniste di ogni forma di ribellione. Anche Hevrin Khalaf, attivista kurda per i diritti civili, ha pagato il prezzo della sua pacifica ribellione: lo scorso ottobre è stata catturata sulla strada tra Hasakah e Qamishli, stuprata e assassinata barbaramente dalle milizie mercenarie turche.
Alle 18, la lunga e lenta onda del corteo si è infranta su piazza San Giovanni per riprendere a fluire oggi. Nel quartiere di San Lorenzo (piazza dei Sanniti) si svolgerà l’assemblea nazionale e si discuterà di immigrazione, salute, ingiustizia, di narrazioni tossiche e di diritti: nessuna deve più pagare un prezzo perché desidera libertà e vuole diritti per se stessa e le altre.