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Clima, in Nuova Zelanda una legge Zero Carbon. La fortuna di essere frontiera del mondo

L’ultima volta che sono stato in Nuova Zelanda ho passato un’intera serata a parlare con un giovane imprenditore americano che ha avviato numerose start-up in vari settori. Questo signore passa dai 3 ai 5 mesi all’anno in Nuova Zelanda gestendo progetti pilota di alcune imprese che vuole lanciare sul mercato, analizzando le reazioni dei consumatori e del mercato per capire se l’idea imprenditoriale merita di essere lanciata su scala globale.

Mi raccontava che la Nuova Zelanda è un territorio ottimale per testare nuove idee imprenditoriali, per i seguenti motivi:

1. La popolazione è generalmente piuttosto giovane e abituata a pensare al futuro in termini innovativi e non tradizionali;

2. È un ambiente altamente multiculturale, il che permette di catturare i gusti e le reazioni di persone di differente estrazione culturale;

3. È un paese con un profondo senso di comunità, dove il bene collettivo viene privilegiato rispetto al mero interesse individuale;

4. Ha una infrastruttura tecnologica di primissimo livello e una mentalità abituata alla sperimentazione, in tutti i campi;

5. È una piccola isola situata al limiti della cartina geografica, dimenticata da Dio e dagli uomini. Con il vantaggio che – se il test non ottiene l’esito sperato – nessuno lo viene a sapere nei circoli che contano. Il che porta a un approccio del ready to fail e quick to fail, che è uno dei segreti del progresso.

Questa conversazione mi è venuta in mente quando ho letto che il Paese ha approvato meno di tre settimane fa una legge – detta Zero Carbon – che sostanzialmente si pone l’obiettivo di azzerare completamente le emissioni di CO2 entro il 2050. Vivendo in un Paese come l’Australia dove il dibattito sul climate change è ampiamente politicizzato (la sinistra si erge a paladina del tema pur riconoscendo che la materia è controversa e le fa potenzialmente perdere voti, mentre la destra continua nella sua posizione di diniego, più o meno moderato), quasi cascavo dalla sedia nel leggere che la legge è stata approvata con – udite bene – 119 voti su 120, in pienissimo spirito bipartisan.

La legge prevede la creazione di una Commissione indipendente sul climate change che ha il compito di lavorare con il governo fornendo consigli su come raggiungere i target concordati nel Paris Agreement in occasione del Cop 21. La Commissione dovrà inoltre produrre dei carbon budgets ogni 5 anni, per informare il pubblico del livello massimo di emissioni permesse durante il periodo. E infine il governo si è impegnato a piantare un miliardo (si, avete letto bene!) di alberi nei prossimi 10 anni e promuovere entro il 2035 il passaggio completo alle energie rinnovabili per alimentare la rete elettrica.

Cosa ci vuole per adottare un’agenda così progressista? Una leader carismatica come Jacinda Ardern, sicuramente. Una massa critica di persone giovani che sono sinceramente e genuinamente preoccupate del futuro del pianeta e della loro nazione e che – invece di organizzare rumorosissime manifestazioni in ogni angolo del Paese – hanno deciso di lavorare a livello comunitario per preparare la transizione catturata dallo spirito della legge.

Ma soprattutto questa sensazione di essere un avamposto di frontiera nel mondo dove fare politica significa preoccuparsi del bene comune dei cittadini, governare implementando le proprie idee senza preoccuparsi di conseguenze tattiche e strategiche, alleanze e giochetti vari. E sempre più mi convinco che l’eurocentrismo di cui siamo stati vittime per tanti anni è uno dei mali che ci ha lentamente corroso e sfiancato, inculcandoci questa mentalità che ogni battito d’ali in Europa provoca sconquassi e tifoni dovunque e costringendoci così a una inerzia suicida.

Fortunati quei Paesi, piccoli e senza la rilevanza geopolitica delle nazioni del Vecchio Continente, che possono permettersi di legiferare e governare pensando solo ed esclusivamente al bene della loro gente, senza paura di sperimentare e, eventualmente, anche sbagliare. Sono terreni fertili per uno startuppismo sociale che forse a oggi rappresenta l’unica medicina per curare il nostro globo malato.