Un simbolo degli anni Settanta pallonari compie 75 anni. Impara a giocare in oratorio, dove vige l'autogestione, e in carriera somma tante di quelle giornate di squalifica che perfino lui perde il conto. Sette anni alla Juventus, dove dialoga con il suo idolo Omar Sivori. Volto della Fatal Verona, amante del raboso e della sua tana trevigiana, un tempo si autodefinì il “Pelé bianco”
Gianfranco Cesare Battista. Eccessivo già il giorno del battesimo, tre nomi quasi quattro perché il primo è un composto, diventa un simbolo degli anni Settanta pallonari con il cognome Zigoni o il suo diminutivo Zigo. Sette stagioni alla Juventus, lo mettiamo nel capitolo dei campionissimi veneti con Baggio e Del Piero o in quello dei ribelli? “Di campionissimi ce n’è stato solo uno e scollinava il Pordoi in bicicletta, dunque preferisco essere inserito nel gruppo dei ribelli”. Se lo dice lui, che un tempo si autodefinì il “Pelé bianco”, allora dobbiamo crederci.
Del classico ribelle anni Settanta intanto ha il look. I capelli sono sempre portati un po’ lunghi già dai tempi delle elementari e del Patronato Turroni di Oderzo, quando neanche Keith Richards nella contea inglese del Kent li portava così. Zigo non è uno che copia gli altri neanche a migliaia di chilometri di distanza. Fuori è di una dolcezza disarmante, in campo però è proverbiale la sua rabbia contro gli arbitri. In carriera somma tante di quelle giornate di squalifica che perfino lui perde il conto. Le giacchette nere lo fanno arrabbiare. Forse perché ne ha vista una per la prima volta che era già un ometto. Come chi vede il mare per la prima volta da adulto e non riesce più imparare a nuotare. Per anni ha giocato solo all’oratorio e lì di arbitri manco l’ombra. Tutti a giocare e le decisioni prese in un’autogestione permanente. A prevalere chi ha maggiore personalità o chi è il più anziano in servizio.
Poi un solo anno a Pordenone, la sua prima vera squadra, e il passaggio alla Juve è rapido. Tra le due squadre c’è un rapporto diretto e nel settore giovanile bianconero finiscono in quattro. Zigoni è il più forte. Una volta arrivato nei campi di serie A, ogni fischio contro per lui non è solo un errore, ma una vera e propria ingiustizia. Arbitri e guardalinee, fa lo stesso. “Quella bandiera puoi mettertela su per il culo”, dice ad uno. Sei giornate di squalifica, saranno una quarantina a fine carriera. Come togliere una stagione e mezza dal suo tabellino di wikipedia.
Dopo il triplice fischio, inizia la vita. Zigoni lo sa. E allora può trovarsi a cena anche con un arbitro. Basta che abbia voglia di divertirsi quanto lui e non sia astemio di raboso che da queste parti è chiamato anche “rosso Piave”. Non stiamo parlando del più pregiato del Veneto, ma di un vino che parla il dialetto meglio di tutti gli altri, sicuramente quello trevigiano. Raboso è un affluente del fiume Piave ma il nome potrebbe essere riconducibile a “rabioso”, cioè “pieno di rabbia” ma in questo caso utilizzato per descrivere un frutto non ancora maturo.
Con Concetto Lo Bello? Beh con lui mai, l’arbitro è un grandissimo, ma diciamo che i due caratteri non possono andare d’accordo né in campo tanto meno fuori. La figlia Cristiana qualche anno fa si iscrive al corso di Arbitri a Conegliano. Esame passato e divisa già inamidata. L’esperienza della ragazza non dura a lungo e nemmeno l’imbarazzo di papà. Ma il paradosso rimane.
Nella sua tana di Oderzo colleziona santini di Che Guevara. Ma la ribellione di Zigoni non è mai stata politica, ai partiti cerca per quanto possibile di rimanere a debita distanza oggi come allora. Oderzo è sempre stato democristiana dalla Liberazione in poi finché con il crollo dei partiti tradizionali ha iniziato a farsi avanti la Lega e a prendersi un municipio che storicamente non è mai stato a sinistra. Qui tra fine aprile e metà maggio del 1945 c’è stata una strage di fascisti da parte dei Partigiani e questa nel paese è sempre stata una ferita aperta. Zigoni racconta che al suo quartiere erano tutti della Dc, ma l’aggettivo democristiano proprio non riesce a coniugarlo e quelli che votano per la Balena Bianca proprio non li sopporta. Sul finire degli anni Sessanta viene messo, quasi da inconsapevole, in una lista MSI per le elezioni. Il padre lavora in un oleificio dove tutti sono fascisti e neanche lui è così distante da quelle idee, sfruttano la sua popolarità di giocatore della Juventus e per qualche voto in più non pensano alle conseguenze che Gianfranco subirà quasi in ogni stadio.
Oltre a Che Guevara, Zigo ha un altro idolo. È Gesù Cristo. Sin da bambino cresciuto all’oratorio, Gianfranco è da sempre molto religioso e anche oggi percepisce una sua spiritualità: cerca in continuazione qualcosa che non riesce a toccare ma che sente come il vero senso della vita. A maggio lo si vede nel capitello del paese a recitare il rosario. Un po’ per avvinarsi alla Madonna, un po’ ritornare bambino. Che Guevara non credeva in Dio, Zigo sì. “Io credo in Dio non nell’uomo”, dice mentre segue in tv una partita dell’Inter.
Come per Franco Cerilli, di cui è buon amico ed è capitato di vederli trotterellare in qualche campo veneto per partite di beneficienza, il mito di Gianfranco è Omar Sivori. E per chi non lo è, tra tutti i ragazzi di allora? Zigo è appena arrivato a Torino per giocare con le giovanili, quando piomba in spogliatoio Omar, che con il suo fare apparentemente arrogante dice agli sbarbati che si stanno cambiando: “Chi di voi gioca con il dieci?”. Nessuna risposta. Gianfranco è un ragazzo timido che diventa rosso quando si imbarazza. Anche oggi si scioglie meglio, se davanti ha un bicchiere di quel vino rosso frizzante che è una specialità di Oderzo. “Chi di voi gioca con il dieci?”, ripete Omar. I compagni iniziano a guardare il nostro e allora è costretto ad alzare la mano. “Ragazzo, ascolta, cambia numero perché con questa non giocherai mai alla Juve”. Finché ci sarò io, è il sottotesto. Da quel momento Zigo inizia ad amare Omar. Le sue parole da bullo argentino mostrano l’umanità del fuoriclasse che non evita di rivolgere la parola a dei ragazzini.
Una volta che vede entrare in prima squadra il ragazzino trevigiano, Sivori lo aiuta con consigli pratici. “Destro, sinistro. Dai, dai, contro il muro”. I due poi giocano qualche minuto assieme in partite regolari, ma Zigoni si limita solo a passargli il pallone. Tieni, maestro. Mancini entrambi, con un destro abbastanza di contorno, Zigoni gli è superiore di testa perché favorito dall’altezza, “ma solo se avevo voglia di saltare”. Anche a giornate di squalifiche è una bella sfida. Sivori si ferma a 34, ma stiamo parlando solo di Serie A italiana. Chi va a controllare se salta fuori qualche mattanza anche in Argentina prima del 1957, anno dell’arrivo del Cabezon in Italia? Zigo inizialmente porta volentieri la borsa al grande Omar. Finché una volta si ribella: “E no caro Omar, ora dovresti portare tu la mia”. Sivori ovviamente non ricambia, ma da quel momento ognuno si arrangia per conto proprio. Zigoni è ora un calciatore adulto.
Il mondo di Zigo è oggi tutto a Oderzo, dove è nato sotto le bombe il 25 novembre 1944. Gianfranco compie 75 anni e ormai dalla grande Opitergium, come la chiama lui, se ne va raramente. L’auto la usa il meno possibile. Preferisce la bicicletta o andare a piedi. Di corsa mai, “non correvo neanche quando giocavo, figurarsi se lo faccio oggi”. Qui i tifosi del Verona vengono in pellegrinaggio a ricordare l’amore calcistico di una vita. “Magari avrei potuto fare qualche gol in più per loro, impegnarmi maggiormente. Visto questo affetto sconfinato”. Oderzo è la sua New York. Infatti chiama il quartiere Marconi, dove è cresciuto, “Bronx”. Che non è il Bronx dei polizieschi americani degli anni 70, quello con Al Pacino che interpreta Serpico, ma un Bronx poetico. Per lui il posto più bello che c’è, anche se come nella canzone di Celentano “Il Ragazzo della Via Gluk” oggi è diverso da allora, ma nei ricordi rimane comunque un luogo idilliaco con “il ponte sul fiume e la ferrovia che passa vicino”.
“Incredibile a Verona”. Enrico Ameri si collega in “Tutto il calcio minuto per minuto”, mentre la squadra di casa sta battendo il Milan 3-1, in pratica facendogli perdere lo scudetto. “Tutti i radioascoltatori vorranno sapere il perché di questo risultato”. Se chiedete a Zigo, ve lo spiega lui: “La partita l’ho vinta da solo, ho fatto diventare grande i miei compagni con il Fatal Verona”.
Ma l’episodio per cui è diventato famoso è un altro ancora. Al Bentegodi si gioca Verona-Fiorentina, Zigo torna da una giornata di squalifica, Valcareggi in settimana vede bene la coppia Luppi-Marchi e così dice al suo pupillo: “Zigo, vieni in panchina con me, tieniti pronto per il secondo tempo”. Siamo a febbraio, in panchina a stare fermi c’è il rischio di patire il freddo, ecco perché oltre alla tuta, esistono le coperte di lana. Ma Gianfranco Cesare Battista Zigoni per sconfiggere il gelo si mette sopra la maglietta da riserva una pelliccia e in testa un cappello da cowboy. Non si è mai visto uno conciato in questo modo in una panchina di serie A. Sembra impossibile, ma è successo davvero. Che l’abbia fatto e soprattutto che nessuno glielo abbia impedito. È il 1976. Una domenica fortunata per i fotografi che si sono fatti accreditare dai giornali per la partita. È una delle istantanee del calcio Anni ’70. Ma perché Zigo l’hai fatto? “Perché faceva freddo”.