Società

Non lavoro e sono un genio: Milano senza di me non avrebbe senso

Sono nato a Milano nel 1969, ho vissuto a Milano dal 1969 al 2019 e continuo a viverci, quindi sono milanese, non si scappa. I milanesi sono cittadini meravigliosi: non mi picchiano. Loro lavorano, si alzano la mattina presto, io no. E non mi odiano per questo, anzi. Sembrano quasi cantare “Per fortuna che c’è il Riccardo…”.

Faccio simpatia perché non ho uno stile aggressivo, non lavoro ma non per cattiveria, non lavoro perché non è nella mia natura, e i milanesi lo sanno e mi rispettano e sorridono quando suggerisco un cappuccino al bar. Avrete notato che non ho detto “ordino”, io non ordino mai, sono una persona gentile, io suggerisco. Sono fatto così, sono disfatto così, come il mio letto.

La mia missione è essere me stesso, fino in fondo, fino al velluto fluente delle tenebre. I milanesi lo sanno e mi amano, mi rispettano. E io amo loro, la loro operosità, mi donano sempre un sorriso, anche se vanno di fretta, un sorriso fuggitivo, loro mi fanno del bene andando a lavorare, e io faccio del bene a loro donando un modello di umanità non allineato. Non mi sento fico per questo, nemmeno furbo, mi sento Ricky e loro si sentono milanesi.

Non potrei vivere in altre città, Milano è accogliente, mi capisce, è materna. Mi sento pacificato, sereno, in questa città che pulsa, in questa città che vive e non si ferma, trovo la mia ragione di non essere, non essere milanese per esserlo in modo diverso. A volte, nelle mattine di megalomania mi dico che Milano senza di me non avrebbe senso, io sono il suo contrappunto, il suo bilanciamento interiore.

Certo non sono l’unico a non fare parte del meccanismo produttivo della città, molti altri sono allo sbando, vivono ai margini, dormono sui marciapiedi o si godono una rendita, ma io ho una particolarità che nessuno ha: sono un genio. Un genio della polvere, un genio del nulla e dell’immobilità estatica e danzante. Dovrebbero farmi una statua i milanesi, finché sono ancora tra di loro, in vita.

Esco di casa con la mia videocamera e li catturo, li faccio diventare protagonisti di una trama sospesa sul vuoto, in preda ai vortici del caos e del caso, inoculo nel loro ordine un virus ignoto, con la mia sola presenza trasfiguro il paesaggio, accendo la videocamera e si apre un buco nero che ingoia gli spietati meccanismi del quotidiano, e per questo sono il messia delle pause, il salvatore dell’inutilità, il profeta dell’attimo, il pastore delle ombre, e in me vivono e rivivono tutti i morti, gli angeli decaduti, le femmine perdute, gli scali celesti, le insenature delle trascendenze, e non c’è follia, non c’è orrore, c’è solo la vita che scorre impetuosa tra le vertigini pietrificate dell’abbandono, perché siamo soli, tutti, anche gli extraterrestri.