Cinema

Nour, mettiamo da parte tutti i riferimenti a partiti e leader politici e guardiamo questo film

Il film di Maurizio Zaccaro presentato al 37esimo Torino Film Festival, è uno stralcio significativo della quotidianità recente di Pietro Bartolo, il medico che dal 1992 si occupa di soccorrere i migranti sull’isola di Lampedusa. Sergio Castellitto si immerge nel personaggio modello Actor’s Studio

Facciamo tutti una piccola rinuncia. Mettiamo da parte tutti i riferimenti a partiti e leader politici, senza pensare nemmeno a cronaca e tweet, e guardiamo Nour. Il film di Maurizio Zaccaro presentato al 37esimo Torino Film Festival. Stralcio significativo della quotidianità recente di Pietro Bartolo, il medico che dal 1992 si occupa di soccorrere i migranti sull’isola di Lampedusa. Zaccaro, scuola Ermanno Olmi, non è un cineasta che vuole imporre lezioncine morali tra il rosso e il nero, anzi tra l’arancione e il grigio. Il maestro bergamasco ha sempre suggerito una prospettiva umanistica, uno sguardo oltre steccati e divisioni terreni, dritto nell’anima dell’uomo. E Nour rientra in pieno in questa “ipotesi di cinema”.

Bartolo, interpretato da un Sergio Castellitto per il quale abbiamo speso ogni apprezzamento possibile, anche se qui ne servirebbero altri ancora, è ritratto in un incedere semplice e universale, in una paradossale autentica speranza rinunciataria, quella del tentare di svuotare un mare con un cucchiaino. Non c’è enfasi attorno al suo agire, non c’è retorica nel suo parlare, dimostrare, spiegare. Bartolo/Castellitto accarezza come un papa laico gli esseri umani. Sospende ogni giudizio etico, causale e criminale (sugli scafisti è fin troppo gentile, anche se non gliela manda a dire), e semplicemente conforta il più debole. Lo sappiamo, sembra la descrizione di una pagina del Vangelo. Eppure quando incontri un poveraccio, mezzo assiderato, impaurito, distrutto, probabilmente privato degli affetti più cari, cos’altro puoi fare? Poi certo, ci sono le leggi, e per fortuna: un’idea di ordine generale, d’imposizione di regole, la ricerca di un intervento statale che sappia capire l’entità umana del dramma e allo stesso tempo preservare l’equilibrio sociale ed economico per non attivare logiche di diffidenza e paura. Queste ultime righe, però, le abbiamo aggiunte noi. Perché in Nour queste considerazioni più pragmatico politiche non ci sono.

Al centro del racconto, di fianco a Bartolo, c’è Nour, una bambina siriana che in mezzo al caos del naufragio non trova più la madre. Il contesto, appunto, tra ambulatori, uffici, centri per rifugiati, ma soprattutto tra banchine del porto e casermoni dove si allineano sacche pieni di cadaveri, è tragedia muta e solenne. Bartolo prova a rintuzzare il dolore della bimba e di questi sconosciuti. Prova a mettere una piccola toppa, poi un’altra, poi un’altra ancora. Antieroe comune e indefesso riesce a sistemare qualcosa, quasi nulla, ma molto, tanto, praticamente tutto il resto (si veda quel no terribile che fa con la testa a quell’altro signore nordafricano che ha perso il figlio e al quale non riesce a fargli tenerlo il suo falchetto) non può e non riuscirà mai a risolverlo. Perché il film Nour mostra proprio questo: lo sforzo naturale e vano di un essere umano di fronte all’immensità di un caotico creato.

Certo, Zaccaro, in collaborazione con le sceneggiatrici Monica Zapelli e Imma Vitelli, imbastisce una sorta di corollario di personaggi e storia attorno a Bartolo e alla bimba, come la giornalista e il fotografo che cercano di intervistarlo, moglie e colleghi del nostro, la deviazione un tantino morbida sui due scafisti, anche se il cuore della drammaturgia rimane fortemente ancorato in questa rappresentazione altissima dell’anelito umanista del protagonista. Castellitto si immerge nel personaggio modello Actor’s Studio. Studiato il timbro di voce di Bartolo è come se ne sfiorasse continuamente l’essenzialità profonda. Poi si concentra su quegli occhialetti da vista che si spezzano a metà sul petto, continua a toglierseli e rimetterseli, facendolo un gesto ora suo e non più da riprodurre. La misura, infine, con cui, mostra tenacia e debolezza è così priva di una retorica del recitare davvero da applausi. Un’ultima notazione. Registicamente Zaccaro, in questa mescolanza tra documentario e finzione – siamo davvero a Lampedusa -, riesce addirittura ad inserire una forma di osservazione pudica sulla morte: sia finta, ovvero riprodotta in modo magniloquente dentro ad un hangar con decine di sacchi blu pieni di cadaveri; sia vera, con immagini d’archivio del recupero di corpi in mare che si mangiano Fuocoammare di Rosi in un boccone. Chiaro, non esiste gara sulla morte. Ma a Zaccaro viene spontaneo e non artefatto guardare e farci guardare quei dettagli, a Rosi no.