I pm lo accusano di aver sottratto oltre 400mila euro provenienti dall’8 xmille, ma né il Ministero dell’Economia e neanche la Cei si costituiscono parte civile. Così dopo anni di indagini, la procura di Trapani ha chiesto il rinvio a giudizio per l’ex vescovo Francesco Miccichè di 76 anni, a capo della Curia trapanese dal 1998 al maggio 2012, quando venne rimosso da Papa Ratzinger, in seguito a una visita ispettiva eseguita dal “visitatore apostolico“, monsignor Domenico Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo. In un aula semi deserta all’ultimo piano del Palazzo di Giustizia di Trapani si è aperto il procedimento dinanzi al gup, ma nonostante la Procura avesse individuato le ipotetiche parti civili (oltre a Mef e Cei anche la Diocesi di Trapani) nessuno si è costituito come parte lesa.
È questo l’ultimo sviluppo del cosiddetto ‘Curia Gate‘, iniziato dopo le rivelazioni del settimanale locale L’Isola che nell’ottobre 2010 pubblicò un inchiesta giornalistica sulla gestione finanziaria della Diocesi di Trapani (e di due Fondazioni connesse: Auxilium e Antonio Campanile) dando l’input a un decennio di indagini giudiziarie, con l’applicazione di importanti provvedimenti e sensibili dietrofront investigativi. Con l’ex vescovo prima nella parte di accusatore dell’allora economo Ninni Treppiedi (la cui posizone è stata archiviata) e poi indagato per gli ammanchi nei conti della Curia. Oggi i legali di Miccichè sono comparsi davanti al gup Antonio Cavasino che ha rinviato a gennaio l’udienza preliminare, in vista del suo imminente pensionamento.
Nel gennaio 2014, in una lettera spedita all’allora procuratore capo Marcello Viola, Miccichè si chiedeva se poteva “sperare di ricevere questo regalo dalla Procura di Trapani in occasione del mio venticinquesimo di ordinazione episcopale”, augurandosi l’archiviazione delle indagini. Adesso è accusato di peculato per essersi appropriato di 410.159,60 mila euro prelevati da due conti correnti (“Interventi Caritativi” e “Esigenze di Culto e Pastorale”) intestati alla Diocesi di Trapani. Un reato singolare per un uomo di chiesa, commesso in violazione della legge 222 del maggio 1985 che regola l’impegno delle somme derivanti dall’8 x mille per “esigenze di culto della popolazione, sostentamento del clero, interventi caritativi a favore della collettività nazionale o di paesi del terzo mondo”. L’ex vescovo era autorizzato ad operare sui due conti correnti, in cui tra il 2007 e il 2011, confluirono quasi 5 milioni di euro (1.854.013,63 euro in uno e 3.088.801,31 nell’altro) provenienti dalla Conferenza episcopale italiana. Nell’atto di accusa i pm Sara Morri e Andrea Tarondo hanno ricostruito tutti gli ammanchi contestati a Miccichè.
“In seguito all’avviso di conclusione indagini abbiamo chiesto due interrogatori alla Procura – dice l’avvocato Mario Caputo, che difende l’ex vescovo – durante i quali abbiamo depositato documentazione contabile reperita negli uffici della Curia, che attesti la correttezza di una parte delle somme contestate dai magistrati, soprattutto quelle dal 2008 al 2011. Purtroppo i documenti che risalgono al 2007 non sono stati rinvenuti i documenti originali”. E soltanto tra i documenti di quell’anno i pm contestano a Miccichè l’emissione di assegni bancari per un totale di 117mila euro, tra cui tre destinati a Teodoro Canepa, cognato dell’ex vescovo e amministratore della fondazione Auxilium. Infine ci sono le “trattenute da prelevamenti in contanti allo sportello” per un totale di 171.596,00 mila euro (tra il 2007 e il 2012) e da sette prelievi in contanti, per un totale di 70mila euro (tra il 2007 e il 2009). All’interno della Curia qualcuno si era perfino accorto di questi prelievi. L’ex direttore della Caritas, don Sergio Librizzi (condannato a 9 anni per concussione, sentenza poi annullata dalla Cassazione) ne era a conoscenza, ma in cambio avrebbe chiesto a sua volta a Miccichè di tacere su quella che è una delle accuse che i pm gli rivolgono: aver chiestp prestazioni sessuali ai migranti in cambio dello status di richiedente asilo.
“La Diocesi di Trapani ha vissuto una vera e propria totale spoliazione dei beni nel tempo, essendo ad oggi costretta a vivere con l’8 permille”, disse monsignor Alessandro Plotti, amministratore apostolico, in seguito alla rimozione di Miccichè. Fu lui a presentare una formale denuncia ai pm per gli ammanchi nei conti delle Fondazioni, ai quali nel marzo 2014 raccontò anche di “500mila euro buttati” per un appartamento con attico a Roma comprato con soldi “destinati alla cura dei bambini e “l’uso di carte di credito personalmente intestate ma collegate coi conti della Fondazione, sia da parte del Canepa che di Miccichè, che sostanzialmente disponevano della Auxiulum come cosa propria”. Per questo l’ex vescovo era finito indagato per “appropriazione indebita” e “malversazione di fondi pubblici” in merito alla gestione delle due Fondazioni, ma quei fatti sarebbero già prescritti.
Restano sotto sequestro i beni che l’ex vescovo custodiva a Monreale (Palermo), nell’abitazione della sorella. Si tratta di una fontana in marmo, un pianoforte del Settecento, oggetti in avorio, crocifissi in legno e corallo, oltre che un’anfora greca inestimabile sequestrati nell’aprile 2015 dal Corpo Forestale. “Ma non sono oggetti originali si tratta di repliche fedeli agli originali”, aggiunge il legale dell’ex vescovo. Lui in questi anni non ha mai smesso di indossare l’abito talare, tanto da officiare i funerali a Roma di Pino Caruso (scomparso il 7 marzo) o farsi fotografare in una domenica dello scorso ottobre, durante un brindisi corredato da torte, con il pittoresco sindaco di Messina, Cateno De Luca. Nel gennaio di quest’anno invece – dopo gli interrogatori con i pm – chiese ed ottenne di poter conferire con Papa Bergoglio, per sincerarlo sulla sua estraneità ai fatti e sulla conclusione di tutte le indagini a suo carico. Adesso rischia il processo.