“Si stima che circa il 90% delle problematiche legate alle infrastrutture italiane siano determinate non da fattori strutturali, bensì dovute a criticità idrogeologiche”. Ma le manutenzioni vengono fatte in modo adeguato? Il report Anac pubblicato a luglio 2019 specificava che per interventi su ponti e cavalcavia la somma spesa dai gestori era la somma spesa "è stata estremamente esigua"
“È tutto accaduto in pochi secondi, non ci sono stati segni promonitori, tanto più che la frana che ha provocato il crollo del viadotto sull’A6 Torino-Savona si è staccata dalla sommità di un versante della montagna considerato a rischio medio-basso”. È questa la conclusione a cui sono giunti, al termine del sopralluogo effettuato, Luca Ferraris, della Fondazione Cima e Nicola Casagli dell’Università di Firenze, esperti dei centri di competenza della Protezione civile nazionale. Una conclusione che fa riflettere, perché se è ancora viva la minaccia di una frana che contiene circa 15mila metri cubi di materiali e che è ancora in bilico, la verità è che quello che è accaduto poteva succedere in tantissime altre aree della Liguria e, più in generale, del nostro Paese. Un Paese dove le frane sono le più censite d’Europa, ma dove il sistema dei monitoraggi e delle responsabilità è molto meno capillare.
UNA FRANA IMPREVEDIBILE – “Sarebbe potuto accadere ovunque, considerando che la Liguria è piena di versanti molto più a rischio” conferma a ilfattoquotidiano.it Ferraris. Monitoraggi? “Non è possibile farli ovunque e, comunque, la priorità andrebbe comunque data ad aree dove si stimano rischi maggiori”. Fa riflettere, a questo punto, che l’evento si sia verificato in una zona considerata ‘innocua’ o quasi. Allora ci si può aspettare di tutto? “Ci sono stati una serie di fattori concomitanti – spiega Ferraris – La frana, composta da circa 30mila metri cubi di materiale, è scesa da un’altezza di 300 metri con una velocità di circa 20 metri al secondo, dovuta alla pendenza, lungo un bacino piuttosto stretto”. Secondo Casagli e Ferraris, è stata la grande quantità di pioggia caduta il mese scorso a provocare lo smottamento di un terreno che è stato agricolo e abbandonato. Il fatto è che il nostro Paese, e non è l’unico, va incontro sempre di più a fenomeni meteorologici estremi”. Come dire: tocca abituarsi e, soprattutto, adeguarsi.
RECORD DI FRANE CENSITE – E allora ci si chiede se l’Italia si stia preparando a evitare i continui danni provocati da eventi imprevisti e imprevedibili. Anche perché, come conferma Francesco Peduto, presidente del Consiglio nazionale dei geologi “si stima che circa il 90% delle problematiche legate alle infrastrutture italiane siano determinate non da fattori strutturali, bensì dovute a criticità idrogeologiche”. Le parole d’ordine sono quindi “prevenzione, manutenzione del territorio e delle infrastrutture, monitoraggi strumentali, satellitari e tecnico-esperti attraverso il presidio territoriale”. E allora il primo passo è quello del censimento: conosciamo davvero gli angoli più a rischio di quest’Italia fragile? “L’Italia è di certo uno dei Paesi, in Europa, maggiormente a rischio frane – spiega Peduto – ma è anche di gran lunga quello in cui questi eventi sono più censiti. Sulle 800mila quelle registrate in tutta Europa e, su queste, 630mila (tra attive, quiescenti e stabilizzate) sono state censite nel nostro Paese. I nostri studi sono sempre più approfonditi, anche perché si tratta di situazioni in continua evoluzione”.
PERICOLOSITÀ E RISCHIO – La prima distinzione da fare è quella tra pericolosità (legata alla criticità idrogeologica dell’area) e il rischio, che fa riferimento al fatto che si stia parlando di una zona più o meno vasta e più o meno abitata. “Secondo la classificazione utilizzata nell’ultimo ventennio dalle autorità di bacino, gli enti dello Stato che avevano la competenza e la responsabilità del censimento – aggiunge il presidente del Consiglio nazionale dei geologi – esistono quattro classi di rischio: basso, medio, elevato e molto elevato”.
LA QUESTIONE DELLE RESPONSABILITÀ – Il punto è capire, una volta disegnata la mappa del pericolo, quando scattino e in capo a chi siano le responsabilità di monitoraggi e manutenzione. Soprattutto se, come in questo caso, la frana coinvolge anche una infrastruttura importante. E su questo fronte, non ci sono regole chiare. A parte una: se una società gestisce un viadotto, risponde e deve monitorare ciò che accade nell’area di sua competenza e nelle immediate pertinenze di questa infrastruttura. Cosa si intende per immediate pertinenze? Lungo ferrovie, strade e viadotti “il concessionario ha la responsabilità anche per un’area che si estende al massimo per poche decine di metri” spiega Peduto. E in caso di zone a rischio di frana? “Non ci sono obblighi di legge per i concessionari – aggiunge – anche se, se c’è un rischio segnalato, è nell’interesse delle aziende prevenire disastri che provocherebbero danni ben più gravi della chiusura di una strada per manutenzione”. Sarà anche nell’interesse delle aziende, ma di obblighi di legge nessuno parla. Sarà per questo che, proprio in queste ore, il presidente della Regione Puglia Giovanni Toti, ha rimarcato il fatto che in Liguria, in quanto terra fragile, serva “un piano straordinario di manutenzione”. Forse consapevole che l’ordinario non salverà né la sua regione, né le altre.
L’INDAGINE ANAC – D’altro canto, se è vero che – secondo gli esperti – la frana che ha provocato il crollo del viadotto sull’A6 Torino-Savona difficilmente avrebbe potuto essere evitata, vale la pena ricordare l’indagine Anac (Autorità nazionale anti-corruzione), pubblicata a luglio 2019, sulle risorse spese dalle concessionarie autostradali per la manutenzione di 7.317 ponti, viadotti e cavalcavia. Perché anche quello è un fronte di prevenzione. Ebbene, la somma spesa è stata considerata “estremamente esigua” rispetto a quella prevista nei piani economico-finanziari: appena il 2,2%. Con una “grande disomogeneità” nella gestione delle concessioni nelle modalità di calcolo adottate per verificare che vengano rispettati i vincoli normativi sulle percentuali minime di lavori da affidare in appalto. Vale la pena ricordarla, perché l’indagine si è concentrata sulle 19 concessionarie (su 22) che dalla relazione 2016 del Mit risultavano aver realizzato investimenti per una percentuale inferiore al 90% rispetto a quelli programmati, almeno su singoli interventi e tra queste si faceva riferimento anche all’Autostrada dei Fiori e, in particolare, al tronco dell’A6 Torino-Savona.