Se finora ha operato a qualsiasi ora e senza tasse, adesso Parigi cambia le regole per Amazon. Perché “chi inquina, paga”. Dopo le battaglie su Uber o Airbnb, la sindaca Anne Hidalgo ha proposto due misure per controllare e tassare le consegne del colosso digitale, raccogliendo così le conclusioni di sindacati e ong che ne hanno denunciato “l’impunità fiscale, sociale e ambientalista“. I motivi: per la giunta socialista il boom delle consegne on-line è un “fattore di precarizzazione, fonte di congestione e di inquinamento” della capitale e l’assessore all’urbanistica, Jean-Louis Missika sta mettendo a punto insieme alla giunta una legge che “deve autorizzare le collettività ad introdurre un eco-canone da imporre sulle consegne a domicilio”. Una norma che si rivolge in primo luogo a Amazon, ma nella sua dichiarazione Missika cita espressamente anche altre piattaforme come Uber Eats. I firmatari desiderano inoltre “limitare” il numero di consegne a domicilio e in certi quartieri, spiegano, “dovrebbero essere “possibili solo ad alcune ore e bisognerà prenotare” preventivamente la propria. Un dispositivo che potrebbe venire ampliato all’intero comune di Parigi e accompagnato da pattuglie della “polizia municipale”.

Ma anche negli Stati Uniti si sta sviluppando la consapevolezza che Amazon, che ha raggiunto da tempo le proporzioni di un colosso mondiale, debba essere contrastato e pagare i costi che fa gravare sulla comunità. In prima linea ci sono Athena, gruppo formato da una trentina di associazioni che si occupano anche delle condizioni di lavoro nei magazzini, e i risultati di un report di Economic Roundtable sull’impatto del colosso nel sud della California, in particolare nelle quattro contee della regione di Los Angeles. Un dossier dal titolo inequivocabile: “Troppo grande per governare”. Il riferimento è ai numeri di Amazon: solo durante l’estate ha assunto 97mila dipendenti, quasi quanti sono quelli di Google. Un investimento che fino a poco tempo fa poteva permettersi solo il governo.

Nelle quattro contee, nel 2018, ha causato sulla comunità costi – mai compensati – per circa 642 milioni di dollari che includono inquinamento acustico, consumo del manto stradale, incidenti e emissioni di Co2. “Con una media di 2.180 miglia per viaggio, le emissioni dei voli di Amazon dagli aeroporti dalle contee di Riverside e San Bernardino hanno provocato un impatto di 45 milioni di dollari sulla produttività agricola, la salute e l’ecosistema”. A beneficiare della multinazionale sono i suoi vertici, continua il report, non i dipendenti “che fanno il lavoro pesante e ci consegnano i pacchi a casa”. In più la prossimità dei magazzini a quartieri dove la media del reddito è bassa facilita “l’accesso di Amazon a chi ha fame di lavoro. E i salari che paga perpetrano la guerra economica di queste aree”. Nel dossier viene anche sottolineato quanto lavorare per Amazon sia usurante, a causa di alti livelli di stress gonfiati dalla velocità delle operazioni di routine. Sindacati e associazioni di immigrati spingono perché la multinazionale aumenti la paga oraria minima – introdotta lo scorso autunno grazie a pressioni e proteste – da 15 a 20 dollari e mentre aumenta la pressione su stipendi e sfruttamento, prevede di chiudere il 2019 con ricavi per 238 miliardi di dollari e 750mila lavoratori.

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