di Riccardo Cristiano*
Da oltre 40 giorni il ceto politico libanese e il suo sistema confessionale sono sotto attacco. Enormi manifestazioni di piazza, caratterizzate da canti e balli – ma anche momenti di attrito e di urto con le forze dell’ordine e gruppi miliziani armati – chiedono al ceto politico di farsi da parte e lasciare il posto a un governo di personalità qualificate, riconosciute come tali, capaci di salvare l’economia nazionale dalla bancarotta e di costruire un sistema democratico.
Non è soltanto la catastrofica situazione economica del Paese a giustificare la richiesta, ma anche un altro dato di fatto: quasi tutta la leadership del Paese era tale ai tempi della guerra civile, che ha devastato il Libano nel passato millennio per quindici anni, dal 1975 al 1990. Il presidente in carica, l’ex generale Michel Aoun, fu un protagonista di quegli anni, come il suo principale oppositore cristiano, Samir Geagea, e come il presidente della Camera, Nabih Berri. Una gerontocrazia confermata dall’età del presidente Aoun, 86 anni, e del suo omologo Berri, 83 anni.
Oltre alla scarsa competenza c’è la conclamata corruzione a muovere i manifestanti. Di questo molti leader libanesi hanno dato atto ai loro concittadini, ma la sensibilità dei leader sui problemi oggettivi del Paese non era evidente ancora a settembre, quando il presidente Aoun ha ritenuto di partire alla volta di New York, per l’assemblea generale delle Nazioni Unite, accompagnato da uno stuolo di 70 collaboratori. Non molto seguiti dalla stampa internazionale, i sit-in di piazza in Libano hanno però messo in evidenza un’altra novità di estremo rilievo: il ruolo che in essi hanno svolto le donne. Un filmato divenuto virale sul web immortala una manifestante respingere un assalitore anti-rivolta a calci.
La protesta, che contesta tutta la leadership libanese, potrebbe in queste ore concentrarsi sul nuovo premier, per il quale incarico si è fatto anche il nome di un 90enne. Un potere anziano e maschile, mentre in piazza sono tantissime le donne, in particolari le giovani. “La rivoluzione d’ottobre”, come la chiamano i libanesi, ha infatti nel mirino un sistema tribale e confessionale che ha ridotto a sei le deputate su 128 in totale. Dunque 122 deputati maschi in un Paese che per il mondo arabo sarebbe proverbialmente più aperto al femminile, ma che nel Global Gender Gap Index del 2018 si colloca allo sconveniente 140esimo posto su 149, una performance addirittura peggiore di quella del Kuwait.
Le libanesi non possono dare la loro cittadinanza ai figli se il padre è straniero, e l’assenza di un diritto di famiglia nazionale le sottopone alle varie leggi religiose per matrimonio, divorzio, diritti nei confronti dei figli e altri aspetti della vita privata. Hanno ottenuto però che per la prima volta l’inno nazionale venisse cantato in piazza parlando del loro paese come patria di “uomini e donne”, non solo di uomini.
Sotto la pressione di una protesta che ha sorpreso tutti i palazzi della politica e che unisce appartenenti a tutte le numerose confessioni presenti in Libano, il primo ministro Saad Hariri circa un mese fa ha accettato di dimettersi, visto che i libanesi lo ritenevano presiedere, più che un governo di unità nazionale, un comitato d’affari transpartitico. Ma l’unica cosa che in questo lunghissimo lasso di tempo è filtrata dal palazzo per sostituirlo sono i nomi di altri imprenditori prestati alla politica. Come sono emersi, così sono stati sommersi dall’ombra di possibili imbarazzi che li ha indotti a ritirarsi. Pochi sperano che le consultazioni, in corso in queste ore, producano un nome accettabile alla piazza.
Ma proprio in concomitanza con questo momento delicatissimo, uno spettro ha preso ad aggirarsi per il Libano. Da domenica notte. Un incidente automobilistico verificatosi a tardissima ora ha indotto Hezbollah, emerso come il partito più ostile alla “rivoluzione d’ottobre”, a definirlo un atto di terrorismo dei manifestanti. Un filmato dell’incidente, ripreso da telecamere di sicurezza, mostra l’automobile soggiungere a tutta velocità, sbandare e poi andare a sbattere contro un’inferriata posta lì dalle forze dell’ordine. Ma non poteva essere un filmato a far cambiare idea ai miliziani del Partito di Dio, che a bordo di motociclette hanno assalito gruppi di manifestanti e incendiato la tendopoli di un loro presidio a Tiro.
Ora la tensione è altissima. Ma le donne libanesi sono ancora in piazza, a riprova che la rivoluzione d’ottobre c’è davvero e le riguarda, come riguarda molti loro figli, padri, mariti cristiani, sunniti, sciiti, drusi, nonostante le loro leadership e gli interessi regionali che li muovono. Ma questa volta, a differenza di quanto avvenuto in anni passati sia in Libano che in Iraq (dove si verificano moti analoghi), i vertici delle principali Chiese cristiane hanno apprezzato le intenzioni dei manifestanti e questo, forse, potrebbe contenere pulsioni repressive. Ma episodi come quello di domenica indicano che il rischio è comunque altissimo. Bisogna infatti tener conto che se dei libanesi sembra interessare a pochi, il sistema bancario libanese serve a tutti, almeno nella regione.
* Vaticanista di Reset, rivista per il dialogo