Morire a 5 mesi di età dentro un container malmesso alla periferia di Roma, con un decesso che, secondo i primi riscontri investigativi, potrebbe essere legato a problemi di malnutrizione e a condizioni igienico sanitarie precarie, è qualcosa che dovrebbe colpire con un fremito la città, sollevare questioni, aprire dibattiti, interrogare le istituzioni chiamate al governo della Capitale, far gridare allo scandalo chi ha a cuore i diritti dell’infanzia.

Soprattutto sapendo che sul corpo della piccola sarebbero stati riscontrati segni di malnutrizione, disidratazione e piaghe dovute alla sporcizia nella quale viveva la famiglia. Una famiglia come le altre, quella della bimba deceduta. Se a Roma vivi in una baraccopoli – anche se ha il brand di “villaggio attrezzato” – la tua giornata la passi dentro un container mangiato da vent’anni di uso, talvolta senza acqua, senza riscaldamento e senza corrente, con l’acqua delle fogne che ristagna davanti la porta.

Candoni, l’insediamento in cui viveva la famiglia della piccola nasce nel 1996, sotto la giunta Rutelli, come un “villaggio” modello per l’accoglienza di famiglie scappate dalla guerra balcanica. Prima ancora che profughi – si ripeteva in quegli anni – sono “nomadi”, culturalmente inadatti a vivere in una casa in muratura, e quindi abitanti delle nuove “riserve” poste negli angoli più remoti dalla città.

Nel “villaggio” di Candoni all’inizio vivevano un’ottantina di famiglie rom e per loro era stato progettato e costruito il campo. Poi, nel “Giubileo nero degli zingari” del 2000, con la chiusura del Casilino 700, altre famiglie bosniache andarono ad abitare quello spazio. Nel 2002 furono invece di nazionalità rumena i rom che dal campo della Muratella vennero trasferiti a Candoni e l’insediamento venne diviso in due: una parte riservata ai rumeni e una ai bosniaci. Infine fu la volta dei “casilini”. Così vennero soprannominate le famiglie della diaspora provocata dalla giunta Alemanno con lo sgombero del Casilino 900 avvenuto all’inizio del 2010.

Il “villaggio” di Candoni è sempre stato dalla sua nascita uno “spazio contenitore” dove gettare i reietti di una Roma che non sa e non vuole accogliere. Settecento anime buttate lì da 20 anni senza speranza. Luoghi come questo ce ne sono diversi a Roma, dove la vita conta poco e i primi a farne le spese sono i più piccoli.

Creature che nascono con tanti marchi sin dalla nascita. Quello di essere apolide, o se va bene con un permesso di soggiorno; quello di essere “zingaro”; quello di avere la vita segnata da un destino che ti ricorda ogni giorno che non potrai mai aspirare a completare gli studi perché il tuo sogno si ferma all’immagine sfocata di un meccanico o di una parrucchiera. Non potrai avere un’alimentazione adeguata e crescere in maniera sana, non potrai avere certezza di restare con tua madre perché nei campi romani le possibilità di adozione sono 60 volte maggiori di chi abita fuori; non potrai invitare i compagni di scuola. Non potrai, non potrai, non potrai…

Potrai però morire nel rogo del container o del camper, come le tre sorelline di Centocelle; potrai scoprire di avere l’epatite; potrai sposarti da bambina; potrai affogare nel Tevere se abiti sulle sue sponde; potrai rischiare, come la piccola di 5 mesi di Candoni, di morire in uno stato di malnutrizione e di abbandono dentro un container comunale.

Sono i genitori, secondo le informazioni della stampa, a essere indagati per maltrattamenti. E questo ci fa quasi tirare un sospiro di sollievo perché così sappiamo su chi puntare il dito e chiudere il cerchio della tragica storia. In realtà la morte della bimba mette tutti noi sotto indagine. Siamo indagati per ignoranza, per omissione, per esserci girati dall’altra parte, per aver creduto e voluto che nei campi ci vive chi merita questa vita, per aver votato chi è incapace di dare soluzioni sostenibili o per aver applaudito chi invoca la ruspa.

Siamo indagati sapendo dall’inizio di essere giudicati pienamente colpevoli. Forse proprio per questo dopo la tragica notizia è rimasta solo una cappa di silenzio a piombare sulla Capitale. Il silenzio ha accompagnato la morte della bambina che la nostra colpevole indifferenza ha ucciso. E un breve articolo di un giornale locale è stato il suo necrologio che ha solo sfiorato, per un attimo, da lontano, una città malata di indifferenza e distratta dalle imminenti feste che ricordano un bambino senza casa.

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